23 settembre 2010

Islam e Cristianesimo

Così Maometto parlava di Gesù




Autore: Ravasi, Gianfranco  Curatore: Buggio, Nerella
Fonte: Avvenire


Le fonti coraniche e la loro dipendenza da Antico e Nuovo Testamento
Gli antenati illustri delle 114 sure

Maria è citata ben 34 volte dalla rivelazione islamica, il Vangelo 12... La spaccatura tra le due fedi avviene sulla figura di Cristo: Dio infatti “è troppo glorioso per avere un Figlio”. Le Scritture cristiane sono sottoposte ad esame critico già da due secoli: per i musulmani sarà una dura lotta.


Sarà certamente un’aspra e lunga battaglia quella che attende gli esegeti del Corano pronti ad adottare i canoni del metodo storico-critico. Non a caso fu aspra per quei teologi cristiani che due secoli fa iniziarono a esaminare la Bibbia anche dal punto di vista storico-letterario, consapevoli che proprio l’Incarnazione - verità squisitamente teologica - lo richiedesse. È una battaglia non ancora conclusa, se si pensa ai forti rigurgiti fondamentalisti di alcune sette o gruppi cristiani.

Ora, tra le varie analisi che dovranno essere condotte sui 6235 versetti delle 114 sure del Corano importante sarà quella che isolerà le fonti bibliche. Nella sua introduzione a quella che rimane ancor oggi la migliore traduzione italiana del Corano (ed. Sansoni-Rizzoli) Alessandro Bausani affermava senza esitazione che “le fonti principali del Corano sono l’Antico e il Nuovo Testamento, seppur sembra non direttamente conosciuti da Muhammad”. Idea ribadita da tutti gli islamologi con accenti diversi ma in sostanziale concordanza: “Il Corano può essere considerato una rilettura della Bibbia sui generis in cui interviene decisamente la personalità di Muhammad” (Maurice Borrmans). Nella sura 4,163 si ha persino il riconoscimento dell’ispirazione divina della Rivelazione ebraico-cristiana: “In verità Noi (Dio) ti (Muhammad) abbiamo dato la Rivelazione come l’abbiamo data a Noè e ai profeti che lo seguirono, e l’abbiamo data ad Abramo e Ismaele, a Isacco e a Giacobbe, alle tribù, a Gesù, a Giobbe, a Giona, ad Aronne, a Salomone, e a Davide demmo i Salmi”.

Se volessimo stare solo alle statistiche, Gesù è nominato 25 volte, Maria 34, il Vangelo 12, i cristiani 14. La trama della vita di Gesù è seguita dall’annunciazione a Maria fino alla sua glorificazione, anche se sulla croce si ha il colpo di scena della sostituzione con un sosia: “Non lo uccisero né lo crocifissero, bensì qualcuno fu reso ai loro occhi simile a lui…; Dio lo innalzò a sé” (4, 157-158), secondo una probabile prospettiva di stampo gnostico che negava l’Incarnazione in senso stretto. Basterebbe, comunque, inseguire la titolatura riservata a Cristo per vederne la venerazione profonda nutrita da Maometto che nel Corano dichiara in nome di Dio: “Noi abbiamo rivelato la Torah che contiene retta guida e luce, con la quale giudicavano i Profeti, e i maestri e i dottori… A loro facemmo seguire Gesù, figlio di Maria, a conferma della Torah rivelata prima di lui e gli demmo il vangelo pieno di retta guida e di luce, confermante la Torah rivelata prima di esso” (5, 44-46).

È per questo che nel Medio Evo si giunse al punto di considerare l’islam come un’eresia cristiana. Non per nulla Dante in una pagina terribilmente realistica dell’Inferno definisce Maometto “seminator di scandalo e di scisma”, collocandolo appunto nella IX bolgia dell’VIII cerchio infernale ove si trovano i seminatori di discordie (28, 22-51). In realtà le figure di Gesù e di Maria nel Corano non coincidono in senso stretto con la tipologia teologica cristiana. Entrambe sono presentate come il modello del perfetto “musulmano”, cioè del fedele totalmente consacrato all’unico Dio, del quale Gesù è profeta altissimo. È, perciò, blasfemo attribuire a Cristo la qualifica di Figlio di Dio: è anche questa la ragione del “protagonismo” di Maria nel Corano, perché per tale via si “umanizza” Gesù, riconducendolo alla figura di un figlio di donna e di servo del Signore.
In questa linea è scontato comprendere il rilievo che ha la polemica antitrinitaria che costella il Corano: “O gente del Libro (cristiani), non esagerate nella vostra religione e dite di Dio solo la verità. Credete dunque in Dio e nei suoi messaggeri. E non dite: Tre! Smettetela! Sarà meglio per voi. Dio non è che un unico Dio. È troppo glorioso per avere un figlio” (4, 171). L’unicità e la suprema trascendenza divina impediscono quel peccato fondamentale per l’islam che è l’”associare” (shirk) a Dio qualcosa di umano: “O gente del Libro, venite a una parola comune tra noi e voi: adoriamo soltanto Dio, senza associargli nulla!” (3, 64).

Ci sono, dunque, alcuni punti fermi che, da un lato, raccordano intimamente Bibbia e Corano ma che, dall’altro, li fanno profondamente divaricare e questi punti sono di natura cristologica. In questa luce si comprende l’andamento sinusoidale del rapporto tra cristiani e musulmani all’interno della storia, rapporto ora simile a un duetto ora teso come un duello. Ovviamente le connessioni e le divergenze ideologiche sono molto più complesse e già oggetto di vasti studi e approfondimenti. Esse si estendono ad altri settori quali quelli dell’etica, dell’antropologia, dell’escatologia, della società. La stessa fluidità della teologia musulmana - che esalta, ad esempio, la trascendenza intangibile di Dio ma che conosce anche la mistica della comunione per cui Dio è a noi più vicino di quanto noi lo siamo a noi stessi - fa sì che il dialogo rimanga arduo e complesso.


Conclusioni

A - Atteggiamento del Corano nei riguardi degli Ebrei e dei Cristiani

Nel Corano si trovano 124 testi “favorevoli” o “benevoli” nei riguardi dei cristiani e degli Ebrei, descritti come “Gente del Libro” (“Ahl al-Kitab”). Ma, secondo Ibn Hazm, e Ibn Al-Arabi, tutti quei bei testi (del periodo meccano) sono stati annullati ed abrogati dal “versetto della spada” (Corano 9: 5 e 29): gli Ebrei e i cristiani sono liberi di mantenere la propria fede ma a due condizioni: devono pagare l’imposta pro capite (“giziah”) e debbono essere umiliati. Anzi, i musulmani non si debbono lasciare governare né dai cristiani né dagli Ebrei (Corano 5: 51; 4: 141; e 47: 34 - 35).
Queste frasi danno una dimensione politica all’Islam che divide il mondo in due: “dar al-islam”, la casa dell’islam (cioè i paesi già islamizzati); e “dar al-harb”, la casa della guerra (cioè da islamizzare con la “guerra”, ormai non sempre armata ma forse con la demografìa e altri metodi).
In ogni caso, il Corano è chiaro: “NON vi sia costrizione alcuna per la religione” (“La ikrah fid-din”). Quindi, almeno Ebrei e Cristiani vengono tollerati e non vengono (o non dovrebbero mai venire) obbligati a diventare musulmani.
Però si legge altrove nel Corano (48: 16): “Di’ agli arabi rimasti indietro: Voi sarete presto chiamati a combattere contro un popolo dotato di forte coraggio; voi li combatterete o essi dovranno abbracciare l’ISLAM (o sottomettersi)”.
Mentre, secondo il Corano, Ebrei e Cristiani sono liberi di non farsi musulmani (almeno in teoria, poi in pratica si fanno tanti sforzi per “convertirli”), il musulmano, invece, è costretto a rimanere musulmano fino alla morte. Maometto ha detto: “Chi (=il musulmano) cambia religione, uccidetelo” (“Man baddala dinahu, fa-qtuluhu”).

B - Accuse coraniche e islamiche contro gli Ebrei e i Cristiani

La “Gente del Libro” avrebbe falsificato la Bibbia!
L’accusa è semplicemente assurda perché, se fosse così, non avrebbero meritato il titolo di “Gente del Libro” (e in arabo la parola “ahl” significa gente e persone DEGNE).
Il Corano, al contrario di quest’accusa popolare superficiale, NON ha mai affermato che Ebrei e Cristiani avessero manipolato le loro Sacre Scritture, Antico e Nuovo Testamento: Thorah, Zubur (Salmi) e Ingil (“Vangelo”). Anzi, rende testimonianza all’autenticità della Bibbia: recitata bene, come si deve, dalla “Gente del Libro” (Corano 2: 121) che Maometto e i musulmani debbono consultare in caso di dubbio o di ignoranza (Corano 10: 94; 16: 43; 15: 9; 5: 68; 3: 113 – 114).
La “manipolazione” sarebbe stata effettuata da ALCUNI Ebrei che, pur mantenendo il testo biblico, l’avrebbero, alle volte, interpretato a modo loro (Corano 4: 46; 2: 75 e 146; 5: 13-14 e 41, soprattutto cambiando il castigo degli adulteri dalla lapidazione alla flagellazione.
Nota: Dallo stesso Corano era scomparso completamente “il versetto della lapidazione” e nella praxis islamica, a volte, vengono “flagellati” gli adulteri.

I Cristiani sarebbero dei politeisti, triteisti!
Ma noi cristiano crediamo “in un solo Dio”, il Suo Verbo (=il Figlio) e il Suo Spirito di Santità, Spirito di Dio tre volte Santo.
D’altra parte, il Corano sembra respingere una “triade” che NON è mai stata la nostra Santissima Trinità: Dio, Gesù e Maria! (O solo Gesù e Maria divinizzati).

I Cristiani bestemmiano quando sostengono che Gesù è figlio di Dio!
Noi cristiani parliamo di una paternità e di una filiazione SPIRITUALI non carnali. Figlio di Dio significa Verbo di Dio, “senza volontà né di carne né volontà di uomo” (Prologo del Vangelo secondo Giovanni).
Per noi, cristiani, Dio è “IL PADRE”, titolo commovente che si trova esclusivamente, in questa forma assoluta, nel Nuovo Testamento (Negli scritti rabbinici si legge l’espressione “Abinu shebashamaim”, “Il nostro Padre che è nei cieli”, ma Dio viene inteso come “Padre dei (soli) Ebrei”.

I Cristiani affermano che Gesù è stato crocifisso, ma secondo il Corano sembrava che fosse stato crocifisso (4: 157). Gli stessi musulmani sono divisi sull’interpretazione di questo testo coranico: “E per aver essi (=i Giudei) detto: In verità, noi uccidemmo il Messia, Gesù figlio di Maria, l’apostolo di Dio, mentre NON l’hanno ucciso, né l’hanno crocifisso, bensì sembrò a loro” (o: “fu vista da loro una somiglianza”).

Una prima interpretazione islamica di Al-Fakhr Ar-Razi: Gesù è stato veramente crocifisso ma i suoi nemici s’immaginarono di “averla fatta finita con lui”. Ma Dio lo innalzò a Sé.

Seconda interpretazione: all’ultimo momento, un sosia di Gesù è stato crocifisso al suo posto. Ma le fonti islamiche NON sono d’accordo sull’identità di questo sosia…
Noi cristiani possiamo dare due interpretazioni del testo coranico di 4: 157:
a. I nemici di Gesù s’immaginarono (=sembrò a loro) di averlo definitivamente eliminato, ma Lui risuscitò e quindi dubitarono di averlo realmente ucciso o crocifisso.
b. Seconda interpretazione cristiana. Alcune eresie cristiane (gnostici, doceti) sostenevano che era indegno per il Verbo di Dio di incarnarsi nel nostro corpo povero e vile. Quindi affermavano (per esempio nell’“Apocalisse di Pietro”) che Gesù avesse avuto una somiglianza di corpo e che, quindi, era impassibile sulla croce o che questa somiglianza fosse stata crocifissa.
I Cristiani mangiano carne suina!
Gesù ha già risposto a tali obiezioni dietetiche: “Non è ciò entra nella bocca che contamina l’uomo ma ciò che esce dalla bocca”.
I Cristiani bevono alcol!
Bere, sì; inebriarsi, NO. Gesù ha trasformato l’acqua in vino (Giovanni 2, 1-11) e beveva vino (coi peccatori!). S. Paolo lo consigliava, invece dell’acqua, a Timoteo (1 Tm 5, 23).
Gli Ebrei e i Cristiani non riconoscono Maometto come profeta!
Gli Ebrei non riconoscono nemmeno Gesù come Messia!
Per noi Cristiani, Gesù è “Il Profeta” promesso a Mosè (Deuteronomio 18, 15-18, legislatore come lui (e più di lui), figlio d’Israele, non d’Ismaele).
Per noi Cristiani, il “Paraclito” è lo Spirito Santo (secondo Giovanni 14, 16) non Maometto (che sarebbe “perikletos”, famoso, lodato - parola che NON esiste nei manoscritti).
Per noi cristiani, Gesù è l’incarnazione del verbo Eterno di Dio (Giovanni 1, 1 e 14), l’ultima Parola, dopo i Padri e i profeti (Ebrei 1, 1-2). Lui è la perfezione: l’alfa e l’omega, “la Via, la Verità e la Vita”.

CONCLUSIONE

Questa ricerca breve non poteva trattare tutti i temi importanti ma ha cercato di chiarire o di presentare dei punti sconosciuti e rispondere a varie domande ed obiezioni. Sarebbe interessante studiare le divergenze tra tradizione sunnite e tradizioni sciite: le prime esaltano Aiscia e Abu Bakr, le seconde esaltano Ali e la figlia Fatima…

Qui abbiamo trascurato le “obiezioni” superficiali e i pregiudizi, per esempio l’identificazione (sbagliata) tra Cristianesimo e Occidente o la “teoria” dell’“Occidente corrotto” o quella del “musulmano pigro” - perché NON si tratta dei principi ma delle persone. E, nelle persone, c’è di tutto! Ci sono i buoni e i cattivi! Lo stesso principio si applica alla STORIA: la Storia della Chiesa NON può essere “vergognosa” dall’inizio alla fine, e la Storia del mondo islamico NON può essere “gloriosa” sempre e dappertutto!

A causa della differenza di fede, di mentalità e di modo di vita, un dialogo s’impone (non un monologo come in Medio Oriente dove solo l’Islam parla nei mass media e nei programmi accademici). Ma, d’altro canto, queste stesse differenze rendono i matrimoni misti molto problematici e molto rischiosi perché le idee fondamentali sul matrimonio, sulla donna, sulla libertà e su altri temi vitali sono molto diverse, e alle volte diametralmente opposte.

“La carità si rallegra nella verità” e nella giustizia, scrive San Paolo nel famoso “Inno alla carità” (I Corinzi 13, 1-13, soprattutto v. 6). L’Apostolo esortava i fedeli a “vivere la verità nell’amore” (Efesini 4, 15). Il nostro amore, gli uni per agli altri, non può cambiare i testi né i documenti, ma può cambiare la nostra vita. La conoscenza reciproca, onesta ed obiettiva, eliminerà tanti fraintendimenti. La conoscenza serena rispetterà le differenze e troverà un modo per realizzare una pacifica coesistenza.

Le grandi domande

Le Grandi Domande - L’apriscatole della coscienza
A parte i pochi come Fred Alan Wolf (citato a inizio pagina), chi mai ci incoraggia a fare domande? Eppure, la maggior parte di quelle grandi scoperte e rivelazioni tanto care alla nostra società sono il risultato dell’aver posto domande. Quelle cose, quelle risposte, che studiamo a scuola sono derivate da domande. Le domande sono il precursore, o la causa prima, in ogni ramo della conoscenza umana.
Il saggio indiano Ramana Maharshi diceva ai suoi studenti che la via dell’illuminazione si riassumeva nell’interrogativo: «Chi sono io?». Il fisico Niels Bohr chiedeva: «Come può un elettrone spostarsi da A a B, senza mai passare nello spazio tra i due?».
Queste domande ci aprono a quello che prima non conoscevamo. E sono veramente l’unico modo di arrivare là, dall’altra parte dello sconosciuto.
Perché fare una Grande Domanda? Fare una Grande Domanda è un invito all’avventura, a un viaggio di scoperta. È entusiasmante partire per una nuova avventura; c’è la grande gioia della libertà, la libertà di esplorare territori nuovi.
Allora, perché non ci facciamo queste domande? Perché porsi interrogativi apre la porta al caos, allo sconosciuto e all’imprevedibile.
Nell’istante in cui vi fate una domanda di cui non conoscete davvero la risposta, vi aprite a un campo di possibilità infinite. Siete disposti a ricevere una risposta che potrebbe non piacervi, o con cui potreste non essere d’accordo? E se vi mettesse a disagio, o vi conducesse al di fuori della zona protetta che vi siete costruiti, in cui vi sentite al sicuro? E se la risposta non fosse quella che volete sentire?
Per fare una domanda non servono muscoli, serve coraggio.
Adesso esaminiamo che cos’è che rende Grande una domanda.
Una Grande Domanda non deve per forza provenire da un libro di filosofia, o riguardare i Grandi Problemi della Vita. Una Grande Domanda per voi potrebbe essere: «Che cosa accadrebbe se decidessi di ritornare all’università per laurearmi in un nuovo ambito?» o «Devo forse ascoltare quella voce che continua a dirmi di andare in California o in Cina?», oppure «È possibile scoprire che cosa c’è dentro a un neutrino?». Porvi uno qualsiasi di questi interrogativi e migliaia di altri potrebbe cambiare la direzione della vostra vita. Ecco quando una Domanda è Grande: quando può cambiare la direzione della vita.
E così, ancora una volta, perché non le facciamo? La maggior parte della gente preferisce rimanere nella sicurezza del conosciuto piuttosto che andare in cerca di guai. Anche se vanno a sbattere direttamente contro una domanda, molto probabilmente se la danno a gambe, ficcano la testa nella sabbia o si mettono subito a fare qualcos’altro.
Per la maggior parte di noi, è necessaria una grave crisi perché sorgano le Grandi Domande: una malattia che metta a rischio la nostra vita, la morte di una persona cara, il fallimento di un lavoro o di un matrimonio, uno schema di comportamento reiterato che provoca addirittura dipendenza e da cui semplicemente vi sembra di non riuscire a liberarvi, o la sensazione che sia impossibile sopportare la solitudine per un’altra giornata. In momenti del genere, le Grandi Domande vengono a galla dalle profondità del nostro essere ribollendo come lava incandescente. Questi interrogativi non sono esercizi intellettuali, ma grida dell’anima. «Perché io? Perché lui? Che cosa ho sbagliato? Dopo quello che mi è successo, la vita varrà davvero la pena di essere vissuta? Come ha potuto Dio lasciare che questo accadesse?».
Se potessimo trovare la stessa passione per fare a noi stessi una Grande Domanda riguardo alla nostra vita in questo momento, mentre non c’è nessuna crisi imminente, chissà che cosa potrebbe accadere.
Come ha detto il dottor Wolf, fare una Grande Domanda può dischiudere nuovi modi di esistere nel mondo. Può essere un catalizzatore per la trasformazione. Per crescere. Crescere ancora di più. Andare oltre.

La gioia di fare domande
Vi ricordate quando avevate cinque anni e continuavate a chiedere: «Perché?». Può darsi che dopo un po’ i vostri genitori abbiano pensato che lo facevate solo per farli impazzire, ma voi volevate davvero sapere! Che cos’è successo a quel bambino di cinque anni?
Riuscite a ricordare il bambino di cinque anni che eravate?
Riuscite a sentirlo? È importante, perché quando avevate cinque anni vi piaceva essere in mezzo al mistero. Vi piaceva voler capire le cose. Vi piaceva il viaggio. Ogni giorno era pieno di nuove scoperte e nuove domande.
E allora, qual è la differenza tra allora e adesso?
Buona domanda!Il divertimento e la gioia della vita stanno nel viaggio. Nella nostra cultura, siamo stati condizionati a considerare il “non sapere” come qualcosa di inaccettabile e negativo, una sorta di fallimento.
Per superare il test, dobbiamo conoscere le risposte. Ma anche quando si arriva alla conoscenza effettiva delle cose concrete, ciò che la scienza non sa supera di gran lunga quello che sa. Molti grandi scienziati hanno indagato il mistero dell’universo e della vita sul nostro pianeta, e hanno detto con franchezza: «Sappiamo ben poco. Più che altro abbiamo molti interrogativi». Questo è certamente vero per gli eminenti pensatori che abbiamo intervistato.
Nelle parole dello scrittore Terence McKenna: «Man mano che i falò della conoscenza si fanno più brillanti, sempre più l’oscurità viene rivelata ai nostri occhi sgomenti».
E ancor più difficile è dare a una risposta precisa alla domanda: «Qual è il significato e lo scopo della mia vita?». La risposta alle Grandi Domande come questa può emergere soltanto dal viaggio della vita. E possiamo raggiungerla soltanto attraverso la via del non sapere; o forse dovremmo dire, del non sapere ancora. Se pensiamo sempre di conoscere la risposta, come potremo crescere?
Fino a che punto saremo aperti per imparare?
Un professore universitario andò a far visita al maestro Nan-in per interrogarlo a proposito dello Zen. Ma invece di ascoltare il maestro, lo studioso continuava a esporre le sue idee personali.
Dopo averlo ascoltato per un po’ di tempo, Nan-in servì il tè. Dopo aver riempito la tazza del visitatore, continuò a versare. Il tè traboccò dalla tazza, riempì il piattino e colò sui pantaloni dell’uomo finendo sul pavimento.
«Non vedi che la tazza è colma?» esplose il professore.
«Non ce ne sta più!».
«Proprio così», replicò tranquillamente Nan-in. «E come questa tazza, tu sei colmo delle tue idee e opinioni personali. Come posso mostrarti lo Zen se prima non svuoti la tua tazza?».
Svuotare la tazza significa far spazio per le Grandi Domande.
Significa essere aperti, ricondizionarci in modo da poter accettare, per il momento, di non sapere. È da qui che sorgerà una conoscenza più grande.

Siete in buona compagnia
Gli esseri umani si sono posti Grandi Domande per migliaia di anni. Ci sono sempre stati uomini e donne che hanno guardato intensamente le stelle meravigliandosi di fronte a quel mistero, o hanno osservato il modo in cui vivevano le persone intorno a loro pensando: «Non c’è nient’altro nella vita oltre a questo?».
Gli antichi filosofi greci meditarono e discussero le Grandi Domande. Alcuni, come Socrate e Platone, si chiedevano: «Che cos’è la bellezza? Che cos’è la bontà? Che cos’è la giustizia? Qual è il modo migliore per governare una società? Quali sono le persone adatte a governare?».
Gli insegnanti religiosi, i maestri mistici e spirituali come BuddhaLao TseGesùMaometto, San Francesco, Meister Eckhart, Apollonio di Tiana e molti altri, all’interno di tutte le tradizioni del mondo, hanno posto Grandi Domande.
Le persone che hanno una mente scientifica hanno sempre fatto domande. Come funziona? Che cosa c’è dentro? Le cose sono davvero come sembrano? Da dove viene l’universo? È la Terra il centro del sistema solare? Esistono delle leggi e dei modelli alla base di quello che accade nella vita quotidiana? Qual è il collegamento tra il mio corpo e la mia mente?
Per i grandi scienziati della storia, queste domande suscitano una passione per la comprensione che va al di là della curiosità. Non sono semplicemente curiosi, bensì hanno bisogno di sapere!
Quando Albert Einstein era ragazzo, si chiedeva: «Che cosa accadrebbe se andassi in bicicletta alla velocità della luce e accendessi il fanalino: uscirebbe luce?». Si ridusse quasi alla follia a furia di chiederselo per dieci anni, ma da quella risoluta ricerca derivò la teoria della relatività. Questo è un grande esempio del porsi una domanda e rimanerle fedeli per anni, nello sconosciuto, fino ad arrivare a una visione della realtà completamente diversa.

Infrangere i paradigmi
Una delle cose che rendono grande la scienza è la premessa che quello che essa pensa di sapere oggi verrà probabilmente dimostrato falso domani. Le teorie del passato sono servite come piattaforma per salire più in alto, come intendeva Sir Isaac Newton quando affermò: «Se ho avuto il privilegio di vedere più lontano degli altri, è perché mi ergevo sulle spalle di giganti».
È soltanto facendo domande, sfidando le presupposizioni e le “verità” date per scontate in un qualsiasi periodo, che la scienza progredisce. E se questo risultasse vero anche per quanto riguarda la nostra vita personale, la nostra crescita e il nostro progresso individuale?
E, pensate un po’, è proprio vero. Quando vi libererete dalle presupposizioni che avete riguardo a voi stessi, crescerete più di quanto abbiate mai reputato possibile.

Fatene tesoro
Meditare sulle Grandi Domande è un modo meraviglioso per trascorrere del “tempo di qualità” con la vostra mente. Quand’è stata l’ultima volta che avete condotto la vostra mente a fare una corsa selvaggia nel mistero? O che avete provato ad arrivare dall’altra parte dell’Infinito?
Fare domande ha anche un enorme valore pratico. È la porta del cambiamento.
Per esempio: non vi chiedete mai, come Joe Dispenza: «Perché continuiamo a creare la stessa realtà? Perché continuiamo ad avere le stesse relazioni? Perché continuiamo a trovare gli stessi lavori? In quest’infinito mare di potenziali che esiste intorno a noi, perché continuiamo a ricreare sempre le stesse realtà?».
Oppure, nelle parole di Einstein, una delle definizioni della follia è continuare a fare ripetitivamente sempre le stesse cose aspettandosi un risultato diverso.
È qui che entrano in gioco le Grandi Domande. Sono Grandi perché ci aprono a una realtà più grande, a una prospettiva più grande, a opzioni più grandi. E ci giungono sotto forma di Domande perché provengono dall’altra parte del Conosciuto. E arrivare là vuol dire cambiare.

15 settembre 2010

una droga che si chiama “alcol”



di Luisa Barbieri
Nel mondo occidentale l’alcool rappresenta la sostanza di abuso più diffusa ed utilizzata, meno criminalizzata e più reclamizzata, un cocktail (per stare in tema) che porta a considerarla una delle piaghe più infette e dilaganti che in qualche modo infestino la nostra società.
Pur essendo a tutti gli effetti una droga con potenti effetti ansiolitici e maleadattativi, pur procurando tolleranza e crisi di astinenza, pur essendo strettamente correlata ad episodi di violenza e/o di situazioni tragiche (vedi incidenti stradali, aggressioni), pur essendo certa la sua dinamica quale causa di una lunga serie di malattie (gastriti, ulcere gastriche, epatiti, tumori, cirrosi, infertilità, teratogenicità), l’alcool è alla facile portata di tutti a costi accessibili senza un sostegno cognitivo riferentesi alle reali problematiche che esso procura.
In realtà siamo immersi in una serie di immagini e di messaggi orientati ad aumentare il consumo di alcolici ... lussuose e potenti automobili, isole incantate, belle donne e avvenenti giovanotti che sorseggiano da raffinati bicchieri ogni genere di “porcheria alcolica”, il tutto con fare facilmente riconducibile nell’immaginario collettivo ad una gestualità altamente erotica.

 
 
Le nostre strade sono invase da enormi cartelloni pubblicitari che reclamizzano superalcolici legando il loro consumo alla possibilità di “entrare in un mondo fantastico”, prevalendo così la proposizione estetica ed accattivante. La pubblicità televisiva aggiunge all'immagine anche il suono che facilita ulteriormente l'assorbimento del messaggio lesivo e deviante.
La nostra stessa cultura riferisce l’utilizzo dell’alcool ad una sorta di rituale di iniziazione all’età adulta, lo stesso gesto del bere nell’immaginario collettivo viene legato ad espressioni di socializzazione, i luoghi del bere associati all’incontro e alla solidarietà.

Esiste, invece, una diversa realtà che parla di imprecisione di manovre anche semplici, di sopravvalutazioni delle proprie capacità di guida, di riduzione dei riflessi e di perdita del potere di valutazione critica della realtà. Ecco quindi le drammatiche immagini delle “stragi del sabato sera”. Ecco una realtà che parla di pancreatici acute, di ematemesi, di tachicardie parossistiche, di delirium tremens, di episodi di coma.(1)
Ben diverse da quelle proposte dai media sono le espressioni, i volti, gli sguardi di chi abusa di sostanze alcoliche … sguardi spenti, volti segnati, gestualità inadeguata, eloquio confuso e confusivo … dolore, solitudine, violenza!
L’alcool ha una lunga storia d’uso come sostanza ricreativa, come sigillo cerimoniale sia in ambito religioso che laico. Sembra inoltre che alcuni tipi di lavoro caratterizzati da grande fatica fisica e scarsa valorizzazione e gratificazione, alcuni contesti sociali chiusi, monotoni, poco stimolanti e pervasi da alcuni pregiudizi che considerano le sostanze alcoliche dotate di qualità energetiche e protettive ne favoriscano la predisposizione al consumo.
Parecchi studi svolti al fine di stabilire le cause che spingono all’uso-abuso di sostanze alcoliche pongono in relazione il soggetto con tale predisposizione alla condizione di figlio di genitore etilista, anche se parlare di predisposizione geneticamente determinata risulta essere a tutt’oggi azzardata, in quanto più che la struttura genetica sembrano influire le condizioni ambientali favorenti un precoce avvicinamento alla sostanza di abuso.
I disturbi affettivi risultano essere spesso correlati all’alcolismo, ad esempio la depressione (che comunque si propone quale inevitabile conseguenza dell’abuso di alcolici) può rappresentare un potente induttore, in quanto il meccanismo primario della sostanza che tende a disinibire può procurare un immediato sollievo ed un mezzo per affrontare il sociale. L'effetto positivo immediato viene poi seguito da uno stato di malessere e di esacerbazione della depressione che assume le connotazioni della “giusta” punizione.
Lo stesso vale per l’ansia mal gestita che in molti casi agisce quale induttore dell'utilizzo di sostanze alcoliche possedendo esse, almeno in prima istanza, una potente azione sedativa, conseguentemente il sollievo risulta immediato seppur apparente e transitorio.
 
Le personalità caratterizzate da comportamenti altamente antisociali tendono ad utilizzare l’alcool e ad abusarne per identificarsi in un modello di vita caratterizzato da comportamenti riferibili alla rissosità, alla promiscuità, all’aggregazione in bande. All'osservazione generalizzata, in quanto la valutazione specifica non sempre depone a favore di questa ipotesi, parrebbe che questi individui ereditassero la predisposizione al disturbo antisociale dall’ambiente famigliare.
Anche la timidezza, l’introversione, il senso di inadeguatezza, la bassa autostima possono rappresentare punti di partenza, in quanto la disinibizione e la primaria spinta aggregativa sembrano contrastare le difficoltà di base, peccato che poi il senso di inadeguatezza e l’isolamento aumentino a dismisura nella fase successiva.
 
Spesso ci si ritrova dinanzi a famiglie dominate dall'uso-abuso di alcolici, sino al franco alcolismo di uno o di entrambi i genitori, più o meno evidenti e/o evidenziabili. In questi casi si è osservato un altrettanto frequente disadattamento dei figli che tendenzialmente possono esprimere anche problemi di identificazione e di socializzazione ripetendo gli schemi consueti rientranti nella dinamica famigliare.
Casi clinici esprimentesi attraverso disturbi della propria immagine corporea sino a debordare in sindromi autolesive spesso nascondono l'alcolismo di uno dei genitori. Un alcolismo negato e/o associato alla co-dipendenza del compagno/a può agire sui figli quale induttore alla consuetudine maleadattativa oppure all'instaurarsi di una sindrome ossessiva dominata dal controllo intrapersonale a riparazione del comportamento genitoriale tutt'altro che controllato: mi è capitato più volte di scovare negli anfratti di sindromi anoressiche un genitore alcolista.
L’alcool è da considerarsi una droga ad effetto sedativo in quanto all’assunzione il primo effetto evidenziabile è l’ansiolisi che determina rilassatezza, benessere, miglioramento del tono dell’umore sino all’euforia, solo secondariamente gli effetti assumono diverse connotazioni sino alla perdita della coordinazione motoria e a distorsioni del sistema percettivo, il tutto in relazione alla quantità di sostanza assunta , alle modalità di assunzione e alla tipologia del soggetto in esame.
L’organismo può mettere in atto alcune manifestazioni adattative quali il vomito atto a ridurre la quantità di sostanza, tale difesa, però può divenire causa di morte per soffocamento in casi di vomito associato a stato di incoscienza indotto da dosi molto elevate di alcool.
L’abuso provoca un aumento nel sangue di un enzima epatico (gamma-GT (2)) che già dopo un mese si presenta, alla valutazione, alterato, così come aumenta il valore globulare medio.
L’etanolo ingerito viene assorbito molto rapidamente, passa nel torrente ematico e si concentra prevalentemente nei distretti maggiormente vascolarizzati, tipo sistema nervoso centrale (ecco perché gli effetti immediati sono a carico di tale apparato), fegato, reni e cuore. La rapidità di passaggio è da porre in relazione con la concentrazione alcolica, quindi l’assunzione di una stessa quantità frazionata in più dosi, oppure a stomaco pieno, determina un picco inferiore ed una normalizzazione dello status organico più rapida. Se in associazione vengono assunti farmaci (tranquillanti, stimolanti, antistaminici, antidolorifici) o altre droghe l’effetto si amplifica in maniera imprevedibile (sinergismo d’azione 3).
Il metabolismo si svolge per una percentuale del 90-95% nel fegato, ecco perché tale organo risulta essere quello maggiormente esposto agli effetti dei prodotti tossici derivanti dalla degradazione dell’alcool, inoltre nella donna sia per la minore capacità di assorbimento a livello gastrico (4 volte inferiore a quello maschile) , sia per via della composizione del corpo femminile contenente più grassi e meno fluidi rispetto a quello maschile consegue una maggiore immissione in circolo della sostanza e quindi effetti molto più rapidi e duraturi (per quanto riguarda il danno acuto la donna si ubriaca molto più facilmente, mentre a livello cronico sviluppa precocemente patologie epatiche gravi).
Nel processo metabolico dell’etanolo si osservano modificazioni funzionali che vanno a coinvolgere:
1.il metabolismo lipidico con conseguente ipertrigliceridemia, dislipoproteinemia, deposito di trigliceridi nel fegato (steatosi)
2.il metabolismo glucidico a livello epatico con inibizione del processo di sintesi del glucosio e il suo deposito sotto forma di glicogeno (4) e attiva il processo di demolizione del glicogeno tendendo ad esaurire le scorte glucidiche ostacolandone inoltre la loro reintegrazione
3.l’equilibrio acido-base in corso di intossicazione etilica viene ad essere compromesso in quanto viene favorita la produzione e l’aumento di composti acidi (corpi chetonici ed acido lattico) che, non essendo eliminabili per via respiratoria, possono causare un abbassamento del ph del sangue (acidosi metabolica caratterizzata dal punto di vista sintomatologico da: malessere, profonda stanchezza, cefalea, dolori addominali, nausea, vomito ed alterazioni respiratorie tese a compensare l’abbassamento del ph) . La condizione di acidosi metabolica si associa ad un’inibizione dell’eliminazione dell’acido urico responsabile di attacchi gottosi molto frequenti nel bevitore cronico.
La chetoacidosi associata al digiuno e all’alimentazione carente di glicidi possono portare il soggetto dallo stupore alcolico al coma e alla morte.
Il fegato rappresenta sicuramente l’organo principe per quanto riguarda i danni conseguenti la cronica assunzione di alcool, ma non si possono sottovalutare i danni allo stomaco (gastriti, emorragie, ulcere, carcinomi), al sistema nervoso periferico (neuropatie), al pancreas (pancreatici acute) e non ultimi i disturbi psichici (depressione, alterazioni delle capacità di giudizio, di autocontrollo, di coordinazione, deliri).
L'intossicazione acuta da alcool (5) è da considerarsi un'emergenza specifica e corrisponde allo stato di ubriachezza che consegue l’ingestione in breve tempo di una certa quantità di sostanza, la gravità della manifestazioni cliniche sono da porre in relazione alla tipologia del bevitore e al tipo di bevanda consumata.
Dipendono dall’individuo:
il grado di tolleranza
la contemporanea assunzione di psicofarmaci
lo stato di ripienezza dello stomaco
la motilità e l’assorbimento del tratto gastroenterico
Dipendono dall’alcool:
il tipo di bevanda
la quantità di bevande assunte
 
Correlazione tra alcolemia ed effetti clinici
Classificazione
alcolemia g/l
Effetti
Stato infraclinico
0,2
0,4
 
0,5
0,7
0,9
 
 
tendenza a guidare l’auto in modo più rischioso
 
diminuzione e rallentamento delle capacità di elaborazione mentale delle percezioni
 
rallentamento della facoltà visiva laterale
forte prolungamento dei tempi di reazione
incapacità di adattamento all’oscurità, compromissione della valutazione di percezioni visive simultanee
Stato di ebbrezza
1
segni clinici: euforia, iniziali disturbi psicomotori evidenti nella maggior parte delle persone
Stato di ubriachezza
1,1-1,9
evidente nello 80-90% delle persone
Ubriachezza profonda
2,0-2,9
confusione mentale, delirio, allucinazioni
Alcolemia mortale
3,0-5,0
la soglia varia da individuo ad individuo
L’intossicazione alcolica, secondo il DSM IV (6) viene inquadrata come segue:
A)recente ingestione di alcool
B)comportamento maladattativo clinicamente significativo o modificazioni psicologiche (per es. comportamento sessuale o aggressivo inappropriato, labilità d’umore, deficit delle capacità critiche, compromissione del funzionamento sociale o lavorativo) che si sviluppano durante, o poco dopo, l’ingestione alcolica.
C)Uno (o più) dei segni seguenti, che si sviluppano durante, o poco dopo, l’assunzione di alcool:
1)pronuncia indistinta
2)in coordinazione
3)marcia instabile
4)nistagmo
5)deficit di attenzione o di memoria
6)stupor o coma
D)i sintomi non sono dovuti a una condizione medica generale, e non possono essere meglio spiegati con un altro disturbo mentale
Il Paziente in preda ad intossicazione alcolica acuta tende a dormire per effetto depressivo dell’alcool, al risveglio presenta la sindrome post-sbornia (hangover) caratterizzata da:
ipereccitabilità
confusione
astenia, adinamia
tremori, cefalea, palpitazioni, nausea associata o meno a vomito
L’assunzione prolungata di alcool determina dipendenza, in effetti i neuroni coinvolti nell’azione tossicologica acuta si adattano dal punto di vista del loro equilibrio biochimico per potere mantenere il loro funzionamento anche in presenza dell’agente tossico. Dal punto di vista comportamentale la dipendenza si esprime con la ricerca impulsiva della sostanza (craving) e con la sindrome da Astinenza alcolica.
La sindrome d’astinenza da alcool (S.A.A.) è quella situazione determinata dalla brusca riduzione e/o sospensione dell’utilizzo della sostanza alcolica da parte di un alcolista cronico, comporta una ipereccitabilità del sistema nervoso centrale causata dalla rapida caduta del tasso alcolemico.
Dal punto di vista sintomatologico si passa dalla sindrome d'astinenza minore caratterizzata da tremori alle mani e alla lingua, nausea, sudorazione, astenia, irritabilità, ansia, insonnia all'allucinosi alcolica che presenta anche allucinazioni uditive e visive, sino al Delirium tremens caratterizzato da: insonnia, agitazione psicomotoria, tremori, disorientamento spazio-temporale, allucinazioni visive ed uditive terrificanti, convulsioni tonico-cloniche in tutto simili a quelle epilettiche.
Compare al massimo dopo 2 giorni dalla sospensione e dura in genere dai 3 ai 5 giorni, tutto sommato è relativamente rara in quanto compare nel 5-10 % degli alcolisti e può portare anche a morte soprattutto se insorgono complicanze, è da porre inoltre in relazione all’età del Paziente, alla precocità dell’intervento terapeutico e dalla presenza di altre patologie acute.
Quale causa della S.A.A. si fa riferimento ad un’ipereccitabilità del sistema nervoso centrale conseguente ad alterazioni del metabolismo del calcio e quindi dellaneurotrasmissione (7).
La brusca sospensione del potus sembra indurre un aumento della concentrazione del calcio all’interno delle cellule nervose con conseguente liberazione a livello sinaptico di aspartato e glutammato, trasmettitori eccitatori.
L’accumulo di calcio determina una maggior attività eccitatoria supportata anche dalla riduzione contemporanea dell’attività del sistema GABAergico, di quello serotoninergico ed un’ipertonia adrenergica (aumento della dopamina plasmatica).
A tutto questo si può aggiungere un deficit di alcuni minerali plasmatici come il calcio, il magnesio, il fosfato inorganico ed il potassio ed una compromissione della condizione muscolare (miopatia scheletrica con conseguenti convulsioni, aumento del CPK plasmatico).
In corso di S.A.A. si possono rilevare le seguenti alterazioni laboratoristiche:
aumento di azotemia, sodiemia, osmolarità plasmatici e proteinemia
diminuzione di glicemia, potassiemia, magnesiemia e fosfatemia
Il DSM IV (6) descrive come di seguito la Sdr. da Astinenza alcolica:
A)Cessazione di (o riduzione di) un uso di alcool che è stato pesante e prolungato.
B)Due (o più) dei seguenti sintomi, che si sviluppano in un periodo variabile da alcune ore ad alcuni giorni dopo che è risultato soddisfatto il Criterio A:
1)iperattività del sistema nervoso autonomo (per es. sudorazione o frequenza del polso maggiore di 100)
2)aumentato tremore delle mani
3)insonnia
4)nausea e vomito
5)allucinazioni o illusioni visive, tattili o uditive transitorie
6)agitazione psicomotoria
7)ansia
8)crisi di grande male
C)i sintomi del Criterio B causano disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.
D)I sintomi non sono dovuti a una condizione medica generale e non sono meglio spiegati con un altro disturbo mentale.
Risulta molto utile in fase di valutazione del Paziente specificare se ci si trovi dinanzi ad alterazioni percettive: questa specificazione dovrebbe essere annotata quando si manifestano allucinazioni con test di realtà integro, oppure illusioni uditive, visive o tattili in assenza di un delirium. Se tale test di realtà si presenta integro significa che il soggetto è consapevole che le allucinazioni sono indotte dalla sostanza e non rappresentano una realtà esterna. Quando le allucinazioni si verificano in assenza di un test di realtà integro, dovrebbe essere presa in considerazione una diagnosi di Disturbo Psicotico Indotto da Sostanze, con Allucinazioni.
Il ruolo dell’alcool nella società moderna si basa su 3 fattori determinanti ed interagenti:
1)le sue caratteristiche valutabili sia dal punto di vista organolettico che sintomatologico
2)la sua disponibilità sia dal punto di vista del costo che della facile reperibilità in situazioni di tutta legalità ed accessibilità da parte di tutte le fasce della popolazione
3)l’atteggiamento della società nei suoi confronti partendo dal permissivismo europeo sino ad arrivare all’ostracismo mostrato dai Paesi di cultura musulmana.
I diversi contesti sociali nel corso dei secoli hanno ampiamente modificato il significato e l’uso dell’alcool:
partendo dall’uso esclusivo riservato ai sacerdoti in epoche che si perdono nella notte dei tempi, quando ancora la produzione di sostanze alcoliche era particolarmente impegnativa vista la mancanza di conoscenze e di tecniche (non si disponeva, ad es. di recipienti atti a conservarlo); quando ancora le sue qualità eccitanti ed euforizzanti venivano considerate magiche e soprannaturali
 
Si arriva al 4000 A.C. che porta alla scoperta della ceramica e conseguentemente al mezzo per conservarlo più facilmente; la diffusione si espande alla popolazione anche se l’uso rimane circoscritto alle cerimonie
 
 
 
 
Con la diffusione della coltivazione della vite (soprattutto nelle aree del Mediterraneo) l’alcol comincia ad essere utilizzato anche per scopi nutrizionali; è proprio in questa fase che si evidenzia un’ altra caratteristica della sostanza, ossia la sua capacità di dare tolleranza ed assuefazione con conseguenti disturbi psico-fisici. Già in civiltà antiche, quali quella Greca o Romana si evidenziano casi di alcoolismo (vedi le testimonianze di vari filosofi quali Ateneo, Ovidio, Senofonte che non facevano distinzione tra ubriachezza e follia). Ai romani spetta il primo approccio terapeutico attraverso l’utilizzo di vermi introdotti nel vino al fine di procurare disgusto nel bevitore.
Con l’industrializzazione dei processi di fabbricazione e con l’immissione sul mercato dei superalcolici la diffusione ha preso il volo; diffusione supportata da una propaganda su larga scala, visti i forti introiti provenienti dalla vendita di questi prodotti.


Lo stesso proibizionismo vigente negli Stati Uniti nei primi decenni del secolo scorso ha abbondantemente alimentato la spinta verso l’utilizzo degli alcolici, questo da una parte perché i produttori e gli spacciatori ricavandone forti introiti avevano sviluppato ampie capacità induttive e dall’altro perché nella dinamica del proibizionismo stesso si esacerba il desiderio trasgressivo del consumatore.
A tutt’oggi il ruolo sociale del vino e/o dei superalcolici, pur avendo perso (almeno nel mondo Occidentale) la connotazione di integratore alimentare, riveste un significato ricchissimo quale mezzo aggregatore, ansiolitico, disinibente ed inoltre, proprio per questa nuova connotazione assunta ed “imposta” dai mezzi di informazione si sta diffondendo a macchia d’olio a classi prima esenti (vedi giovanissimi e donne). I mass media, dotati di altissimo ed incontrollabile potere persuasivo ed invasivo, oltre alla pubblicità diretta dei prodotti a contenuto alcolico (tutto sommato questo sembra rappresentare il danno minore, in quanto proposto relativamente in maniera chiara, al di là delle immagine passibili di errata interpretazione), tendono a proporre un modello sociale, una condizione umana talmente al limite della nevroticità scompensata da rendere un mito l’angoscia del vivere. Un’angoscia vitale quale substrato esistenziale divenuta parte essenziale di una corrente intellettuale dominante sia in ambito letterario che artistico in genere.
 
Note:
1.Franco Aguglia – Cattedra di Medicina d’Urgenza – Università “La Sapienza” di Roma - Introduzione di “Le emergenze in corso di alcolismo cronico” - Ed. Scientifiche Biomedica Foscama 1991
2.La gamma-GT o gamma-glutamiltranspeptidasi è enzima che promuove il trasferimento del gruppo chimico gammaglutamilico dal glutatione ad altri aminoacidi. É localizzato nel fegato, comprese le vie biliari, e in altri tessuti (intestino tenue, milza, pancreas e reni). Incrementi dell'enzima rilevano in corso di colestasi, di somministrazione di alcuni farmaci quali ad esempio la difenilidantoina, i barbiturici, inoltre pare essere particolarmente sensibile all'azione dell'alcol di cui rileva la epatotossicità. Pur essendo considerato un indicatore di malattia a carico del fegato, va ricordato che la sua specificità non è assoluta in quanto si riscontrano aumenti della gamma-GT anche in corso di malattie renali, pancreatiche, polmonari e metaboliche (diabete mellito).
3.Sinergismo: azione congiunta di agenti tale da procurare un effetto combinato maggiore di quello che si potrebbe ottenere dalla somma algebrica dei loro singoli effetti
4.Il glucosio si accumula sotto forma di glicogeno
5.“Le emergenze in corso di alcolismo cronico” – G.Bertazzoni, M.Ceccanti –Ed. Scientifiche Biomedica Foscama , Roma 1991
6.DSM IV - Ed. Masson – 1999
7.la neurotrasmissione sinaptica è la trasmissione di un impulso nervoso attraverso la giunzione (sinapsi) che si stabilisce tra due neuroni (cellule nervose); nelle sinapsi non esiste continuità, ma solo contiguità fra gli elementi che vi partecipano; la sostanza intercalata ha la funzione di membrana e pertanto è capace di presentare processi di polarizzazione (eccitazione) e depolarizzazione (inibizione) ( indica la scaricarsi della polarizzazione delle membrane biologiche cui è dovuta la corrente d’azione che accompagna il processo di eccitamento cellulare); la sinapsi interviene direttamente nel condizionare o meno la propagazione dell’impulso nervoso.

Sguardi semiotici sulla pubblicità


a cura di Cinzia Bianchi e Andrea Zannin da www.ocula.it

Il numero 6 di Ocula concentra la sua attenzione sulla pubblicità sottolineandone vari aspetti: le analisi semiotiche della comunicazione e dei testi pubblicitari, i loro aspetti passionali ed estesici, le loro implicazioni sociosemiotiche e culturali. A ciò si aggiunge un approfondimento del mix di promozione pubblicitaria del prodotto cinematografico, oltreché la proposta di riflessioni più antropologiche e psicologiche degli spot e del fenomeno della marca.
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Hanno collaborato a questo numero: Marco Benoît Carbone, Nicola Bigi, Marianna Boero, Pier Pietro Brunelli, Riccardo Fusaroli, Claudia Graziani, Giulia Perani, Caterina Schiavon, Stefano Traini, Simone Tronconi, Fabrizio Trotti.
Editors: Cinzia Bianchi, Andrea Zannin. Ocula è un'idea di Progetto Fabula




Parte Prima - Semiotica delle passioni e dell'estesia
Estesie di marca. Aspetti sensoriali e somatici della brand communicationdi Stefano Traini
L’articolo è diviso in due parti: nella prima si tenta una ricognizione dei paradigmi semiotici più attuali, come la sociosemiotica, la semiotica delle passioni e la semiotica dell’estesia. Si tratta di una ricognizione sintetica che serve a discutere quali metodologie semiotiche possono essere utilizzate oggi per intervenire in modo efficace nelle strategie comunicative di marca. Nella seconda parte dell’articolo si propongono due analisi della componente patemica ed estesica di un paio di spot recenti (Telecom “Gandhi” e caramelle Halls), oltreché alla valutazione della componente sensoriale e percettiva dei punti vendita.
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Passioni ed estesia: una chiave di lettura dello spot D&Gdi Claudia Graziani
Chi si occupa di pubblicità oggi non può esimersi dal considerare la dimensione patemica ed estesica, che sta assumendo un ruolo sempre più determinante nelle sue logiche costruttive e interpretative. In virtù di questa consapevolezza, l’articolo concentra l’attenzione su un singolo testo, lo spot televisivo che pubblicizza –o meglio, che pubblicizzava– gli orologi della nuova collezione D&G Time (dopo un mese dalla prima, andata in onda il 14 novembre 2004, il Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria ne ha disposto infatti la cessazione). Lo spot appare emblematico di queste nuove tendenze del linguaggio pubblicitario, che in questo caso vengono in qualche modo estremizzate, con intento comunque provocatorio. In esso, infatti, tutto è dominato dalle passioni e dall’estesia: dalla storia raccontata alla realizzazione tecnica, dall’immagine di marca veicolata al rapporto che l’enunciatore-marca intende instaurare con il suo pubblico.
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Dalla pubblicità alle strategie di marca. Il nuovo protagonismo delle passioni e delle sensazionidi Marianna Boero
È ormai appurato che la semiotica applicata a ogni tipo di comunicazione consente di stabilirne il significato complessivo e di segnalarne eventuali elementi distonici. È invece relativamente recente l’attenzione che i semiologi stanno dedicando alla dimensione patemica ed estesica del senso nell’interpretazione dei messaggi pubblicitari.
Partendo dal presupposto che nessun meccanismo di manipolazione persuasiva, ideologica o emotiva messo in atto dalla pubblicità possa essere compreso senza considerare la dimensione patemica della significazione, il presente contributo intende mostrare il ruolo centrale che oggi ricoprono le passioni e le percezioni in pubblicità, dal soft selling all’emotional branding, dal polisensualismo al marketing aesthetics. In particolare, dopo una ricognizione sulla sempre maggiore diffusione delle tecniche soft selling in pubblicità e di ciò che questo implica in termini semiotici, ci si soffermerà sull’analisi di testi esemplificativi di questa tendenza: per quanto riguarda la dimensione passionale, verrà analizzata la strategia di marca adottata da Lancôme; relativamente alla componente percettiva la scelta è ricaduta su un testo unico, il profumo J’adore di Dior.
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Sguardo, voce, corpo: un’analisi semiotica di uno spot Playstation 2di Riccardo Fusaroli
Trenta secondi, un cane che dorme. David Lynch costruisce così uno degli spot della campagna pubblicitaria per Playstation 2. Il senso messo in gioco mette alla prova lo sguardo semiotico. Questo articolo cerca di dipanarlo, indagando le spazialità costruite e i mondi allusi, la corporeità messa in scena e le passioni nello sguardo della telecamera.
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Parte seconda - Sociosemiotica e semiosfere culturali
Adbusters: sociosemiotica del subvertisingdi Giulia Perani
L’articolo prende in esame alcuni aspetti della rivista canadese Adbusters. Essa viene analizzata innanzitutto come spazio sociale di significazione, luogo di rappresentazione di una società traducibile in termini narrativi e di una semiotica dell’azione.
Adbusters viene poi considerata come soggetto semiotico enunciante attraverso il suo manifestarsi come luogo di produzione e di manifestazione di simulacri enunciativi: in particolare, attraverso l’individuazione delle marche enunciazionali inscritte nel testo, vengono descritte le identità simulacrali degli autori e gli obiettivi che si propongono di perseguire con la loro azione comunicativa.
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Tutti pazzi per Bollywood: l’influenza indiana nella pubblicità italiana.di Simone Tronconi
Nella pubblicità apparsa recentemente in Italia si è manifestata una tendenza interessante, legata all’influenza dell’India e soprattutto di format come quello del “matrimonio indiano”, derivati dai film bollywoodiani di maggior successo in Europa, come ad esempio Monsoon Wedding, Leone d’Oro 2001. Nel saggio si cerca di leggere questa tendenza alla luce delle teorie lotmaniane di semiotica della cultura per darne una spiegazione in termini di contatti tra “semiosfere”. Gli spot analizzati sono “The Guru” di Coca-Cola e “Wedding” di Rio Casa Mia.
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Your fragrance, everyone’s rules. Massive transgression and collective individualism in Hugo Boss advertisementsdi Marco Benoît Carbone
A partire dall’analisi di due annunci stampa di profumi “Hugo Boss” l’articolo esamina in primo luogo la “messa in scena” a livello discorsivo di due modelli differenti di mascolinità e apre considerazioni sulle modalità mediante cui l’attuale sistema mediatico propone l’individualismo come modello collettivo. Da qui l’evidente creazione di paradossi e cortocircuiti tra sociale e individuale, tra esclusivo e massificato. Lo sguardo analitico proposto reintroduce in nuce la possibilità di una semiotica che – come la prima semiologia barthesiana – possa interrogare criticamente il sociale e le sue forme di manifestazione ideologica.
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Parte terza - Forme di promozione pubblicitaria
Il film promessodi Fabrizio Trotti
Il saggio si focalizza sulla complessa gestione del mix di comunicazione che ruota attorno alla promozione e commercializzazione del film “La finestra di fronte” di Ferzan Ozpetek. La questione fondamentale che viene discussa riguarda il fatto che una vasta tipologia di testi, sempre più diversi tra loro– come trailer, backstage e videoclip – tendono a moltiplicare la “promessa” del film ma, per essere efficaci mezzi di promozione, non devono assolutamente depotenziarla o addirittura “bruciarla”.
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>guarda il trailer di "La finestra di fronte" in formato AVI (9,8 Mb)
>guarda il movie clip "Gocce di memoria" di Giorgia, in formato MOV (4,7 Mb)
>guarda il movie clip "Gocce di memoria" di Giorgia, in alta risoluzione, formato AVI (50,9 Mb)
“Il mio nome è Bond. James Bond”:diventerà slogan? La pubblicità di un film diventa promozione di un evento: l’evoluzione del marketing cinematografico.di Nicola Bigi e Elena Codeluppi
Il settore cinematografico si sta dirigendo verso una sempre più complessa attività di marketing legata alla promozione dei singoli film. Teaser, locandine, trailer, gli oggetti promozionali, i dvd in che modo si collocano rispetto all'uscita del film in sala? In che modo i concetti classici di pubblicità, marca, ciclo di vita del prodotto, sono applicabili al settore cinematografico? Con questo contributo vorremmo introdurre queste problematiche anche nell'ottica sociosemiotica di un discorso più ampio sugli eventuali cambiamenti nella fruzione cinematografica.
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Parte quarta - Aperture disciplinari
“Vengo anch’io? No tu no”. Per uno sguardo semio-antropologico al testo pubblicitariodi Caterina Schiavon
A partire dal caso specifico della campagna Parmigiano Reggiano, caratterizzata dai simpatici tentativi della mucca di passare “al di qua” delle barriere poste dal casaro, l’articolo propone una serie di flash analitici che mostrano quanto in profondità possano scavare gli strumenti semio-antropologici. Tralasciando programmaticamente gli aspetti discorsivi ed espressivi degli spot, l’analisi semio-antropologica va a monte dell’allestimento tematico-figurativo per rintracciare le opposizioni simboliche e i ruoli archetipici che governano il mito (nel nostro caso la dinamica di inclusione/esclusione) ri-semantizzato all’interno dei racconti contemporanei, di cui la pubblicità costituisce il caso principe. Il linguaggio del mito diventa quindi una chiave di accesso privilegiata per leggere la semantica profonda del testo pubblicitario.
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Brand & Dopedi Pier Pietro Brunelli
L’interrogativo provocatorio e paradossale a partire dal quale si sviluppa l’articolo poggia sull’assimilazione tra branding e doping: la marca può funzionare come una droga? La risposta è affermativa: tanto per la capacità di creare mondi illusori, quanto per gli effetti di dipendenza e spersonalizzazione, la Marca è una “droga” psico-semiotica la cui esistenza condizione sia il polo del consumo (i consumatori drogati di Brand) che su quelli della produzione (le aziende che non creano più i prodotti preoccupandosi poi di raggrupparli in una marca o firmarli con una marca, ma inventano prodotti per coprire gli spazi di marche esistenti). I Brand sono gli unici prodotti dell’attuale società del consumo.
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14 settembre 2010

La verità scientifica




Giorello: Insegno Filosofia della Scienza all'Università degli Studi di Milano. "Filosofia" è un termine che significa "amore del sapere". Forse non c'è sapere così importante per noi, così incisivo sulle nostre esistenze, come la scienza. 
Parleremo di cosa si intende per verità in campo scientifico: la verità scientifica, la verità nella matematica, la verità nella fisica, nella chimica, nella biologia, nelle discipline poi che normalmente si insegnano anche nella Scuola Media Superiore e che poi si riprendono, con altra veste e altri aspetti, nell'Università.
Non è un tema facile. Cosa sia mai la verità scientifica può spaventare; forse però il modo migliore per accostarsi è tener presente che questa verità non è soltanto "di parole", ma è qualcosa "di fatti", anzi di manufatti, di congegni, di artifici, di apparecchi..

Che cosa si intende oggi per verità scientifica?
La risposta più naturale sarebbe quella di dire che la verità scientifica è ciò che abitualmente gli scienziati credono e accettano. Naturalmente questa risposta lascia aperto il campo a una serie di ulteriori domande
Facciamo un esempio. La comunità scientifica di un tempo, o almeno quelli che allora si chiamavano i "filosofi della natura", credeva che il vuoto non esistesse: il vuoto è il "non essere", e quindi non c'è. Per cambiare idea ci vollero degli eretici (in un qualche modo), cioè dei contestatori di quello che veniva insegnato.
Noi potremmo dire che la verità scientifica è quello che viene controllato in un qualche modo dalla comunità scientifica. Non è soltanto quello che viene creduto, ma proprio quello che viene controllato con l'esperimento o con il ragionamento intellettuale.
Galileo Galilei parlava di "sensate esperienze e certe dimostrazioni". Le certe dimostrazioni sono quelle della geometria e più in generale della matematica, mentre le sensate esperienze sono le esperienze dei nostri sensi, e anche quelle che facciamo in laboratorio.
Forse le verità scientifiche non sono così definitive come spesso si crede. Tante volte quello che noi riteniamo una verità scientifica ben controllata è qualcosa che, con una strumentazione più raffinata, viene ridotta di portata, e diventa meno universale. Questa "verità" è sostituita da una verità un po' più profonda.
Noi riteniamo che una verità scientifica non sia altro che un enunciato che in un qualche modo noi possiamo controllare e che può essere anche scartato e sostituito da un altro, che ci permette di capire meglio le esperienze che facciamo, le osservazioni che vengono registrate.
In questo senso, quello che ci importa non è tanto il possesso di un qualche cosa, ma la tensione, lo sforzo che facciamo.
Ciò che io ho controllato lo puoi controllare anche tu, perché - come dicevano giustamente Galileo, Cartesio, Pascal, e tutti i grandi padri fondatori della scienza moderna - qualunque persona che sia in grado di intendere e di volere, e che abbia volontà di applicarsi, è in grado di fare e controllare quell'esperienza. La scienza è pubblica e controllabile da chiunque. Se è controllabile e pubblica, è anche insegnabile.

Che rapporto c'è tra verità e realtà?
Ogni persona sarebbe portata a credere che una cosa è vera se "fotografa bene", "rispecchia bene" la realtà che ci circonda. Ma la realtà ha più d'una faccia, ha più d'un aspetto che può essere analizzato. Faccio un esempio, perché è meglio sempre che parlarsi per esempi. Tutti conoscono il modello dato da Galileo della caduta dei gravi. Tutti i corpi cadono secondo la stessa cinematica, con la stessa accelerazione. Quindi la stessa equazione descrive tanto la caduta d'una piuma quanto la caduta di una palla di cannone. Tuttavia, se guardiamo l'esperienza comune, non succede così. Perché? Perché la legge di Galileo, così come l'ho enunciata, è incompleta. Bisogna aggiungere, per esempio: "nel vuoto". E' cosa interessante che torniamo ancora al vuoto, perché questa intuizione di Galileo è stata sviluppata prima che la generazione successiva, quella dei Pascal o dei Boyle o del nostro italiano Torricelli, facessero gli esperimenti con le pompe aspiranti.
Bisogna allora dire: "Attenzione, questa legge di Galileo vale soltanto, soltanto se si è tolto via il mezzo" (il mezzo sarebbe la sostanza appunto attraverso la quale la palla di cannone e la piuma cade), per esempio l'aria. "Rendere il più possibile rarefatta l'aria", diceva Galileo. Che vuol dire? Che la nostra immagine scientifica della realtà non rispecchia mai completamente la realtà, perché bisogna dimenticare qualche fattore di perturbazione: in questo caso, l'aria.
Le nostre leggi, in realtà, sono molto più approssimate che esatte, perché bisogna sempre tener presente che ci sono un mucchio di fattori perturbanti.
Questo vale già per una scienza come la matematica. Pensiamo a cosa succede a studiare, ad esempio, un processo del vivente, lo sviluppo di un embrione per esempio, oppure pensiamo a quella che si chiama la "dinamica di una popolazione", per esempio come si equilibrano prede e predatori in una situazione geografica. Oppure pensiamo a una situazione economica costruita dall'uomo o a una situazione sociale. Man mano che si prendono in considerazione oggetti sempre più complessi, i fattori di perturbazione diventano tantissimi. La realtà è forse infinitamente più complessa e non smette mai di sorprenderci. La gente che si esaltava con le grandi conquiste della meccanica newtoniana, aveva delle informazioni sul nostro universo molto diverse da quelle che noi abbiamo ora. Per esempio, aveva delle idee diverse sul numero dei pianeti, non riteneva che l'universo fosse grande o vecchio quanto noi oggi lo riteniamo, ecc.
La natura ha continuato a sorprenderci. Questo senso di sorpresa della natura, che ci mostra come le nostre immagini siano in qualche modo anche sfocate e vadano continuamente corrette, è forse quello che rende l'impresa scientifica un'avventura, un'avventura affascinante.

Che rapporto c'è oggi giorno tra verità scientifica e verità filosofica? Ossia come si pongono gli scienziati rispetto alla filosofia?
Io credo che ormai ci sia una sostanziale differenza fra filosofia e scienza, anche se esse sono nate insieme con l'antica Grecia.
La differenza è questa: molti scienziati hanno la sensazione di una crescita del loro sapere, anche drammatica, anche segnata da rivoluzioni scientifiche. Il filosofo ha piuttosto la sensazione di riproporre gli eterni interrogativi. Oggi non facciamo più un esperimento per dimostrare l'esistenza di Dio, e forse nemmeno ci lasciamo convincere da una dimostrazione dell'esistenza di Dio, anche se in passato se ne sono fatte alcune, che erano argomenti logicamente anche molto interessanti.
Forse ogni scienziato ha la sua personale filosofia o forse, come diceva Albert Einstein, lo scienziato è un opportunista, che, quando ha bisogno di una filosofia particolare, se la prende e la usa, salvo poi passare ad un'altra, a seconda di dove lo sta guidando la propria ricerca.

Lei pensa che la verità scientifica si tramuti in progresso per l'umanità?
Dipende da cosa si intende per progresso. Se per progresso s'intende la crescita della conoscenza, credo che sia indubbio che oggi ne sappiamo un po' di più dei tempi di Newton, e che Newton ne sapeva di più di Galilei. Se come progresso s'intende il successo tecnologico, anche qui credo che il mondo in cui noi viviamo stia a dimostrare che il progresso c'è stato.
Il buon vecchio Bacone diceva che Aristotele è stato importante, però tre invenzioni hanno cambiato il mondo, ai suoi tempi: la bussola, la stampa e la polvere da sparo.
Il mondo è cambiato in meglio, secondo le nostre speranze e i nostri auspici? Qui ritorna il problema del codice morale. Può darsi che, dal nostro punto di vista, il progresso tecnologico non sia un progresso in assoluto; può darsi che noi siamo terrorizzati dalle grandi capacità della tecnica, più che della scienza, di uccidere.
Enrico Fermi diceva che, dopo tutto, la comparsa della bomba atomica e poi di ordigni sempre più potenti aveva in qualche modo frenato almeno le grandi potenze dallo scatenarsi in conflitti locali. Dipende da che cosa intendiamo noi come progresso a livello morale.

Per il benessere dell'umanità non è meglio in certi campi fermare la ricerca, la ricerca della verità scientifica? Mi riferisco, in particolare, alla genetica.
Sì, ci sono degli scienziati che la pensano così. C'è stato un genetista che ha rinunciato a lavorare nel campo della sperimentazione genetica. Anche queste sono scelte molto legate, io credo, alla coscienza individuale. Stiamo attenti che questo non diventi una filosofia di Stato, perché ci sono anche esempi di società che, per paura dell'innovazione scientifica e tecnologica, hanno fermato la ricerca e poi sono state sopraffatte.

Attualmente qual è il rapporto tra scienza e religione?
Io credo che oggi il rapporto tra scienza e religione sia un rapporto di neutralità, come diceva, tra l'altro, un filosofo scomparso di recente, Paul Feyerabend.
Oggi cerchiamo di invadere il meno possibile i campi reciproci. Non è stato sempre così.
Coloro che sostenevano che la terra è rotonda, che è concezione già greca per molti versi, furono osteggiati dalle autorità religiose, che invece pensavano a una terra piatta, per un lungo periodo di tempo. Poi però sono venute le navi di Colombo. Colombo era convinto di fare la volontà di Dio, e che uno dei rilievi che egli vede in uno nei suoi viaggi fosse la montagna del Purgatorio. Però queste montagne del Purgatorio son state poi sfruttate e economizzate.
Quindi, in un qualche modo, si ha l'impressione che la religione si sia un po' ritirata nelle sue pretese. Noi sappiamo che il Sommo Pontefice ha chiesto "scusa" a Galileo Galilei per la condanna del 1633, quando Galilei fu condannato per aver sostenuto, in scienza, qualcosa di diverso da quello che volevano i suoi censori francescani e domenicani.
Può darsi che questo divario sia destinato ad aumentare. Noi non lo sappiamo. Oppure è possibile che la scienza ritorni a riproporre proprio quei temi che possono accendere una nuova religiosità.

Si può dire che parlare di verità scientifica e di verità in genere è un parlare di convenzioni, di convenzioni che nascono da una necessità di intendersi?
Il momento delle convenzioni è importantissimo, ma non è l'unico. Prendiamo il caso appunto della matematica. Noi matematici fissiamo i postulati di partenza, di Euclide per esempio, ma poi i problemi che vengono fuori sfuggono al nostro controllo. Non è che noi siamo dei padroni assoluti.
Il fatto che il quinto postulato di Euclide - quello secondo il quale per un punto, fuori da una retta data, passa una e una sola retta parallela alla retta assegnata - non sia deducibile dagli altri, è un fatto contro cui il matematico sbatte i denti, esattamente come sbatte i denti anche lo scienziato empirico quando ha un'anomalia o qualche cosa che non gli torna.
Quindi noi siamo padroni delle nostre convenzioni, ma fino a un certo punto. Le convenzioni lavorano per conto loro. Anche il matematico si trova di fronte a problemi oggettivi. Non c'è solo convenzione, ma c'è anche una resistenza della materia: è questa che rende la questione così affascinante perché, se tutto fosse convenzione ed arbitrio, la scienza sarebbe solo un giochetto. Invece non è un gioco, è una sfida continua dell'intelligenza: con i numeri, con i laboratori, e qualche volta con i laboratori e con i numeri insieme.

Non si può parlare allora di una verità immortale, universale, visto che ogni epoca ha le sue scoperte?
Io penso che, proprio perché una teoria scientifica ha una "pretesa di universalità", essa potrà essere superata nel futuro. Quando Newton formula la legge della gravitazione universale, egli è convinto che valga per tutte le masse e a qualunque distanza. La meccanica newtoniana doveva valere per qualunque velocità. Poi noi abbiamo capito che, per le velocità vicine a quelle della luce, ci vuole una meccanica più sofisticata.
L'aspirazione è sempre verso qualcosa di universale, anche se Newton e Einstein sono persone nate in un contesto culturale ben preciso, con un certo tipo di credenze, con un certo tipo di educazione, che senza dubbio ha influito sullo stile con cui hanno comunicato le loro scoperte. Quindi io credo che noi dobbiamo riconoscere da una parte la relatività delle teorie scientifiche, ma anche prendere sul serio la loro pretesa di universalità: altrimenti sarebbero una semplice espressione culturale. Invece la scienza vuole essere qualcosa di più, vuole essere anche il fondamento, per esempio, di una tecnologia di successo e vuole spiegare appunto come è fatto il mondo, anche in casi molto difficili.

Quali sono i presupposti necessari per trovare una verità scientifica?
Si può rispondere soltanto in questo modo: avere una società abbastanza illuminata dal finanziare molti programmi di ricerca, magari in concorrenza: lasciare che cento fiori fioriscano, e che il dibattito corra nella maniera più libera e più spregiudicata possibile.
Quando dico "più libera e più spregiudicata" volevo riprendere proprio una cosa che dicevano loro prima, e cioè che c'è un momento della comunicazione scientifica, che va oltre quello che è semplicemente per "gli addetti ai lavori" e arriva a largo pubblico. Il largo pubblico recepisce certe cose, forse non certe altre. Quindi si pone un problema anche di educazione alla scienza.

Professore, il fatto che in alcuni campi esistono più verità scientifiche, a volte in contraddizione tra di loro, non può indurci a pensare che non esiste una verità assoluta, cioè una verità assoluta scientifica?
Io non riesco bene a capire che cosa s'intenda per verità assoluta.
Io credo che abbiamo punti di vista sempre più sofisticati e raffinati che si confrontano. Se questi punti di vista arrivassero all'assolutezza e alla perfezione, non avremmo più la ricerca.
Io credo che la verità assoluta sarebbe quieta e tranquilla come la pace dei cimiteri. Io invece ritengo che noi viviamo proprio per metterci continuamente in discussione.
Quello che ci interessa non è il possesso: è la ricerca.