19 ottobre 2009

Confutando le tesi di Cascioli sui Vangeli, parte I


Scritto da Emiliano Musso

Girovagando per la rete, spinto anche dalle richieste di un lettore, mi sono «imbattuto» negli scritti di Luigi Cascioli, ex-sacerdote passato all’ateismo, che da anni ormai porta avanti una crociata contro la chiesa di Roma e contro il cristianesimo in generale, nel tentativo di dimostrare l’inconsistenza della fede cristiana. Ho quindi deciso di commentare in chiave critica alcuni suoi scritti, partendo dalle sue affermazioni relative ai Vangeli. Il primo testo del quale ci occuperemo è quello conosciuto come il «Vangelo secondo Marco».

Perchè non seguire l’ordine canonico, iniziando da Matteo? Per il semplice fatto che, come avremo modo di vedere, il testo attribuito a Marco fu una delle basi sulle quali sia Matteo che Luca scrissero le rispettive narrazioni, riportandone molto del contenuto: ecco perchè questi tre Vangeli vengono anche chiamati «sinottici»; posizionando il testo di Marco, Luca e Matteo su tre colonne parallele, è possibile infatti seguire la narrazione in maniera armonica, notando con facilità le similitudini, anche a livello di esposizione. Vediamo prima una breve panoramica sul Vangelo, per poi affrontare le tesi del Cascioli. Buona lettura!

L’autore
Iniziamo spendendo alcune parole sull’autore di questo testo, per occuparci in seconda battuta della datazione del suo scritto: chi era «Marco»? La chiesa degli esordi associava la figura di questo evangelista con il personaggio di «Giovanni, detto Marco» del quale possiamo leggere nell’episodio di Atti 12:12. Si tratta di una figura «contesa», che fu al centro di una accesa disputa tra Paolo e Barnaba, allorquando dovettero decidere se portarlo con loro durante una missione (Atti 15:37-41).

Più tardi, Marco e Paolo superarono i dissapori sorti in tale occasione: prova ne sono due citazioni che l’apostolo delle genti rivolge (in accezione positiva) al giovane nelle epistole ai Colossesi (4:10) ed a Filemone (24). Inoltre, l’apostolo Pietro lo menziona con affetto nella sua prima epistola (5:13). La figura di Marco che emerge dal racconto biblico certamente non lo fa apparire come un personaggio particolarmente evidente, e con ogni probabilità – perlomeno, basandosi su quanto ipotizziamo del suo carattere – egli non avrebbe redatto il suo scritto in assenza di una ragione più che valida. Eusebio di Cesarea, vescovo e scrittore in lingua greca, riportando le parole del vescovo Papia indica Marco quale redattore dell’omonimo vangelo (Eusebius, Storia Ecclesiastica, III.39), vangelo nel quale, secondo la cristianità del II secolo, lo scrittore espose il pensiero dell’apostolo Pietro, al quale era molto legato, e del quale era discepolo[1] :

[1] «Marco, interprete di Pietro, riferì con precisione, ma disordinatamente, quanto ricordava dei detti e delle azioni compiute dal Signore. Non lo aveva infatti ascoltato di persona, ma, come ho detto, da Pietro; questi insegnava secondo le necessità, senza fare ordine nei detti del Signore. In nulla sbagliò perciò Marco nel riportarne alcuni come li ricordava. Di una cosa sola infatti si preoccupava, di non tralasciare alcunché di ciò che aveva ascoltato e di non riferire nulla di falso.»

Lo stile della narrazione, è poi una conferma del fatto che Marco non sia stato un testimone oculare del ministero di Cristo, anche se alcuni vorrebbero dare ad intendere questa ipotesi affermando che la citazione di un “ragazzo che fuggì nudo durante l’arresto di Gesù” (Marco 14:51-52) sia una sorta di cameo autobiografico, ma non abbiamo sufficienti prove per asserire questo aspetto con certezza, considerato anche che, come abbiamo visto, questo era scartato fin dagli albori del cristianesimo.

La datazione
La datazione precisa del Vangelo di Marco non è sicuramente compito facile, e questo a causa di ragioni differenti: anzitutto, vi sono pareri discordanti tra i vari padri della chiesa, e poi alcuni problemi sollevati dal testo stesso. Secondo il parere di Clemente Alessandrino (150 d.C. – 215 d.C.), fu Pietro a dettare personalmente il Vangelo a Marco, per approvare poi l’ultima stesura, mentre Ireneo (130 d.C. – 202 d.C.) afferma che lo scritto sia immediatamente posteriore alla morte di Pietro e di Paolo.

Le citate difficoltà del testo sono invece legate alle allusioni di Marco alle persecuzioni ed ai processi di cristiani: alcuni teorizzano che i lettori del testo dovettero sopportare la persecuzione a causa della loro fede, cosa che daterebbe il Vangelo di Marco negli anni 60-70 d.C., quando l’imperatore Nerone accusava i credenti dell’incendio di Roma. È però importante tenere a mente che nel I secolo la persecuzione era così usuale, che non è affatto detto che si stiano indicando le persecuzioni più note: sicuramente, vi furono persecuzioni più ridotte, anche locali, delle quali non sappiamo nulla. Questo pertanto non è un criterio affidabile per la datazione del testo.

Un’ulteriore accertamento da fare riguarda la cosiddetta «sezione apocalittica» di Marco, ossia il brano presente al capitolo 13, versetti da 1 a 37: determinare il rapporto tra tale narrazione e la caduta di Gerusalemme, avvenuta nel 70 d.C. per opera delle armate di Tito, sarebbe un sicuro aiuto nel facilitare la datazione dello scritto. Vi sono studiosi che stimano la data di compilazione del Vangelo molto tempo prima del 70 d.C., mentre la maggioranza degli esperti è concorde nel datarlo tra il 45 d.C. ed il 60 d.C.. Una esigua minoranza si spinge poi fino al 70 d.C., e pochi altri asseriscono che esso fu redatto intorno all’80 d.C.

La tesi, e la risposta
Fatte queste premesse, che ci hanno permesso una introduzione all’ambito in cui Marco scrisse, passiamo a vedere quali siano le tesi di Cascioli, per discuterle alla luce di quello che sappiamo dalla Scrittura e dalla storia. In blu saranno scritti gli estratti del lavoro di Cascioli, mentre in nero, dopo ogni passaggio, riporterò le mie considerazioni in merito (con note a corredo):

Cascioli: Presentazione della Chiesa: «Marco, collaboratore di Pietro, che lo predilesse tanto da chiamarlo “suo figlio”, lo scrisse intorno al 65 per i fedeli di origine pagana; secondo la tradizione, per i cristiani di Roma». (C.E.I.). Anche se tutti gli esegeti sono d’accordo a ritenere che il vangelo di Marco sia uscito prima di quello di Matteo per la ragione che quest’ultimo lo ricopia in numerosi passi, esso è comunque da collocarsi ad una data posteriore al 150 per gli stessi motivi che sono stati portati per il vangelo di Matteo: il redattore è a conoscenza della disfatta di bar Kocheba (135) e Papia, vescovo di Geropoli verso il 150, dimostra di conoscerlo allorché lo qualifica come una raccolta di reminiscenze riportate senza alcun ordine cronologico: «Marco, interprete di Pietro, redasse esattamente ma senza ordine ciò che ricordava delle parole del Signore». Basterebbe soffermaci su questa definizione di Papia per determinare la tardività del vangelo di Marco.

SoloVangelo: Attaccando perfino la prefazione al Vangelo dell’edizione CEI, Cascioli mette in dubbio la datazione dello scritto, stimandolo come un’opera addirittura posteriore al 150 d.C.. Le sue motivazioni? Anzitutto, il fatto che, come abbiamo visto, Papia citi questo scritto. La vanità di questa tesi è sotto gli occhi di tutti, ma vogliamo fare un esempio pratico: se il ragionamento del Cascioli fosse valido, il fatto che, da qualche parte del mondo, venga ipoteticamente rinvenuto un testo autorevole del nostro secolo in cui si parla dell’Odissea, dovrebbe farci concludere che il poema di Omero deve essere datato intorno al 2000 d.C., suscitando ovviamente l’ilarità generale. È evidente che una tale tesi non può essere bollata in altro modo se non come «sciocchezza». Vediamo quindi come, contrariamente a quanto affermi il Cascioli, non sia affatto sufficiente soffermarsi sull’affermazione di Papia.

La seconda ipotesi dell’ex-sacerdote è che lo scrittore del Vangelo fosse evidentemente a conoscenza della rivolta di Bar Kochba (che il Cascioli chiama Bar Kocheba, probabilmente ignorando come si legga lo sêwa ebraico…); con ogni probabilità, egli fa questa ipotesi basandosi sul brano apocalittico di Marco 13 (visto poc’anzi), ma senza addurre nessuna prova per confermare che in quella porzione di Vangelo ci si stia riferendo alla disfatta dei Giudei ad opera dei Romani (135 d.C.). Piuttosto, ci pare di scorgere nelle parole di Gesù il cosiddetto «impianto predizionale»: Cristo, cioè, si riferisce all’imminente caduta di Gerusalemme del 60 d.C., espandendo poi il significato delle sue parole alla tribolazione apocalittica, la quale deve ancora verificarsi. Il fatto di voler poi criticare uno scritto evidentemente profetico sulla base di nozioni storiche posteriori è un artificio ingenuo: essendo Gesù l’incarnazione di Dio, era logicamente possibile per Lui esprimersi su fatti futuri senza avere quindi la necessità che i redattori delle sue parole fossero a conoscenza di tali eventi. Traducendo in altri termini, Cascioli non è in possesso di alcun dato che affermi la conoscenza, da parte di Marco, degli eventi del 135 d.C., e quindi non può affatto riferirsi alle sue supposizioni come a certezze.

Cascioli: Cos’altro si può dedurre da essa se non che il vangelo dichiarato canonico dalla Chiesa sia una derivazione dello pseudo-Marco, dal momento che esso, oltre che a riportare una biografia di Gesù, risulta anche essere il più ordinato di tutti i vangeli? «Il vangelo a cui si riferisce Papia dichiarandolo una raccolta di sentenze riportate senza alcun ordine non può essere quello che la Chiesa ci propone, perché nessuno dei vangeli ha un piano più coerente e studiato di quello di Marco» (Goguel – Intr. al Nuovo Vangelo). «Il vangelo di Marco è così ordinato che le sue parti, ben distinte fra loro, sono a loro volta divise per tre o in multipli di tre; Gesù è oltraggiato alle ore 3, condotto al Calvario alle ore 6 ed espira alle ore 9. Questa composizione, essendo tutto l’opposto dello pseudo-Marco a cui si riferisce Papia, non può essere stata scritta che da qualcuno che l’ha ricostruita e messa in ordine dopo il 150». (Prosper Alfaric ex professore di teologia presso i grandi seminari di Francia, convertitosi all’ateismo). «Il vangelo di Marco, come tutti gli altri vangeli canonici, non sono che un’elaborazione di quella raccolta di sentenze chiamate Logia che furono tratte dalle profezie bibliche riferentesi al Messia». (Rendel Harris – Testimonianze – Cambridge 1920 – Quaderno del Circolo Renan, 3° trim. 1961).

SoloVangelo: L’affermazione di Papia secondo cui le sentenze (logia) di Gesù sono riportate da Marco in ordine sparso, non significa certo che il testo debba essere illeggibile, oppure che presenti evidenti contraddizioni cronologiche. Facciamo un esempio: In Marco 9:37, Gesù pronuncia la celebre frase: «Chiunque riceve uno solo di questi piccoli nel mio nome, riceve me; e chiunque riceve me, non riceve me, ma Colui che mi ha mandato». Subito dopo, al versetto 38, leggiamo invece: «Giovanni gli disse: Maestro, noi abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome, e glielo abbiamo vietato, perchè non ti segue con noi». La domanda è la seguente: quali prove abbiamo per affermare che i due versetti siano da considerarsi come un corpus organico, pronunciati effettivamente con quella sequenza? Nessuna.

In effetti, parrebbe strano che mentre Gesù insegnava un concetto di una sicura valenza teologica come quello del versetto 37, uno dei suoi discepoli cambiasse improvvisamente discorso, per affrontare un argomento del tutto diverso!

C’è poi da dire che non siamo in possesso di alcun documento definibile come pseudo-Marco, essendo un tale scritto presente soltanto nelle congetture di chi si aspetterebbe che, dovendo essere un testo «non ordinato», il Vangelo di Marco debba essere il lavoro illetterato di un analfabeta! Chiaramente, nella stesura anche non cronologica di avvenimenti, si può (e si deve) seguire una struttura, altrimenti come si potrà rendere comprensibile il testo?

Vediamo inoltre che le fonti citate dal Cascioli appartengono ad una certa corrente viva agli inizi del XX secolo, la quale basava il suo pensiero sulla non-esistenza storica di Gesù. Oggi tale movimento, se non morto del tutto, è certamente decrepito, e sono soltanto gli sforzi di alcuni «nostalgici» a ritardarne la scomparsa definitiva. Il caso di Prosper Alfaric, giusto per citarne uno, è emblematico: sappiamo che fu il suo incontro con la filosofia a distruggere le promettenti basi che egli aveva come ministro cristiano, tanto da trasformarlo, fino alla sua morte avvenuta nel 1955, in uno dei pilastri dell’unione razionalista. Le sue sono le considerazioni di un uomo che è semplicemente passato da una categoria di pensiero ad un’altra.

Cascioli: Un’altra prova dimostrante ancora che il vangelo non è stato scritto da un ebreo quale era Marco, ma piuttosto da uno dei quegli esseni di origine pagana della comunità di Roma (Il vangelo di Marco fu scritto a Roma in lingua latina – Couchoud. Infra- pag.254), che si erano separati dall’essenismo per sostenere l’incarnazione di Cristo, ci viene dalla disconoscenza che costui ha della Bibbia allorché inizia il vangelo commettendo subito l’errore di attribuire l’annuncio del Messia al profeta Isaia (Mc.1,1), quando esso appartiene invece al profeta Malachia (3,1).

SoloVangelo: Sulla paternità del Vangelo di Marco abbiamo già discusso: tutta la cristianità primitiva, come abbiamo visto, era concorde nell’indicare nel discepolo di Pietro l’autore dello scritto. Le speculazioni su una probabile origine essenica di Marco non trovano conferma né nelle Scritture, né in alcun documento storico, rimanendo, pertanto, fumose illazioni. Il Cascioli vorrebbe invece affermare il contrario, additando un’ipotetica ignoranza scritturale (che sarebbe propria della comunità essena, la quale invece era versatissima nelle Scritture Antiche) che avrebbe condotto l’autore a commettere un “errore di citazione”, proprio in apertura della sua narrazione. Vediamo allora il passo “incriminato”:

«Inizio del vangelo di Gesù Cristo [Figlio di Dio]. Secondo quanto è scritto nel profeta Isaia: «Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero a prepararti la via…Voce di uno che grida nel deserto: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”». » (Marco 1:1-2)

In questo passo, Marco non sbaglia affatto citazione: infatti, vediamo che la citazione di Isaia 40:3 è correttamente indicata («Voce di uno che grida nel deserto: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”»), mentre invece omette di dire che la prima parte della frase è in effetti l’estratto da Malachia 3:1. Con ogni probabilità, Marco intendeva dare una maggiore enfasi all’adempimento della profezia cristologica di Isaia (definito anche l’«evangelista dell’Antico Testamento»), piuttosto che quella di Malachia, che è in evidente riferimento alla figura di Giovanni il Battista.

Cascioli: Ma di questi errori biblici e geografici che potevano essere commessi soltanto da truffatori che ignoravano la Bibbia e la Palestina ne sono così pieni i vangeli da suscitare più pietà che disprezzo. Soltanto Adel Smith, nel suo libro “500 Errori nella Bibbia” (Ed.Alethes), ne ha contati nei 4 vangeli canonici e negli Atti degli Apostoli ben 250. «Non sono che insignificanti inesattezze che servono a rafforzare la fede», rispondono i preti quando gli si fanno rimarcare!

SoloVangelo: Non mi dilungherò in una trattazione riguardante la bontà delle odierne traduzioni per non risultare eccessivamente «pesante», ma su questo punto è comunque necessario spendere alcune parole. In effetti, nelle rese moderne è spesso possibile trovare alcune imprecisioni dovute alla difficoltà di adattamento linguistico (tradurre lingue come il greco e l’ebraico in italiano, per esempio, non sempre è così immediato), ed è quindi evidente la necessità di approcciarsi, per quanto possibile, alle lingue originali: quando il cristiano afferma che la Parola di Dio è perfetta, non si sta certo riferendo alle traduzioni, ma al testo ispirato.

Le imprecisioni presenti ad oggi nel testo sono causate dalla ricopiatura dei manoscritti nel corso dei secoli. Ma attenzione: quando si parla di questi «errori», è necessario sapere che essi sono assolutamente ininfluenti sotto il profilo dottrinale, andando a colpire quelle parti di testo più specificatamente discorsive o narrative. Un piccolo esempio chiarirà le idee:

Nell’episodio descritto in 2 Samuele 8:4, i prigionieri catturati dal re Davide risultano essere millesettecento cavalieri, ventimila fanti, e cavalli per cento carri. Lo stesso avvenimento lo troviamo descritto in 1 Cronache 18:4, dove leggiamo che i prigionieri erano costituiti da settemila cavalieri, ventimila fanti, mille carri e cavalli per cento carri. La differenza tra i cavalieri è notevole, e studiosi come Keil e Delitsch spiegano che tali discrepanze sono probabilmente il frutto di errori di copisti, nel copiare – appunto – i caratteri ebraici. Non abbiamo comunque traccia di anomalie che minino il senso della Scrittura: essi si riducono a casi sporadici e tutto sommato irrilevanti come il suddetto, narrazione neotestamentaria inclusa.

Cascioli: Un’altra osservazione interessante riguardo l’autore del secondo vangelo ci viene da Guy Fau: «Come è possibile che sia stato Marco, l’apostolo tanto prediletto da Pietro da considerarlo come suo figlio, a scrivere questo vangelo quando egli tacendo il “ tu es Petrus” che troviamo negli altri vangeli, dimostra di ignorare che Gesù lo aveva eletto capo della Chiesa?».

SoloVangelo: Quest’osservazione nasce anzitutto da una cattiva comprensione della frase «tu sei Pietro»: con essa, Gesù non intendeva affatto mettere Pietro in una posizione di superiorità rispetto agli altri apostoli, né voleva dare il via ad una gerarchia ecclesiale. Su questo aspetto ho scritto abbondantemente alcuni giorni fa; si veda il seguente link per approfondire: http://www.solovangelo.it/2009/06/29/un-primato-di-paglia/

In effetti, l’assenza di tale frase nella narrazione di Marco (sapendo che essa arriva proprio dalle parole di Pietro), non è altro che un rafforzativo rispetto al fatto che Gesù non abbia nominato suoi vicari o successori: perfino il testo scritto sotto la supervisione di «Petrus» non fa menzione di primati particolari! Ma il Cascioli si dimostra così aggressivo nei confronti della chiesa di Roma, da prendere un passaggio che necessita di studio per essere compreso appieno, per voler compiere, attraverso di esso, un duplice attacco: al Vangelo di Marco in primis, e poi alla gerarchia cattolica, reale mira del lavoro dell’ex-sacerdote.

Continueremo nella prossima puntata con una analisi del Vangelo di Matteo: nel frattempo, invitiamo i nostri lettori ad esprimere i propri pareri in questo spazio.

Confutando le tesi di Cascioli sui Vangeli, parte II

Scritto da Emiliano Musso

Proseguo in questo articolo, come promesso, l’analisi critica delle tesi di Luigi Cascioli in merito alla veridicità dei quattro Vangeli canonici, che l’ex-sacerdote afferma essere imposture. L’ultima volta abbiamo visto alcune note sul Vangelo di Marco, mentre in questa istanza ci occuperemo di quello di Matteo, il pubblicano che fu accolto al seguito di Cristo.

Seguirò la stessa linea adottata in precedenza, facendo quindi un piccolo cappello introduttivo al testo, per poi calarci nella confutazione delle asserzioni di Cascioli: prima di questo, comunque, vorrei spendere un po’ di tempo per fare un breve inciso sulla formazione del canone neotestamentario. Stando infatti a sentire Cascioli, sembrerebbe che esso sia venuto fuori dal nulla, complice una chiesa che ha messo insieme testi che sembrassero giustificare le proprie visioni. Pensandoci, poi, c’è addirittura una diceria secondo cui gli ecclesiali del tempo avrebbero sistemato gli scritti su uno scaffale, prendendo per buoni soltanto quelli che non caddero (non si sa se sospinti da forze spirituali, o per semplice legge di gravità).

Tralasciando l’ovvia ilarità che suscitano simili affermazioni, vediamo invece cosa abbia portato alla composizione del canone: F.F. Bruce, nel suo libro «The Canon of Scripture», identifica sei criteri principali attraverso i quali ebbe luogo il processo della canonizzazione. Essi sono i seguenti:

  • L’autorità apostolica
  • L’antichità del testo
  • L’ortodossia, ossia la linea dottrinale proposta dai testi
  • La cattolicità, dal greco katholikos, ossia l’universale riconoscimento del testo
  • L’uso tradizionale
  • L’ispirazione
  • Pietro Ciavarella, teologo e autore del libro «Risposta a Inchiesta su Gesù» si sofferma sui primi due, particolarmente utili alla sua trattazione; a riguardo di tali punti, egli afferma:

    «Secondo il primo criterio, i libri ritenuti autorevoli dovevano essere stati scritti da uno dei primi seguaci di Cristo, o almeno essere associati con loro o comunicare il loro insegnamento (autorità apostolica). Il secondo criterio era collegato a questo ed era quello dell’antichità. Per essere canonico uno scritto doveva essere antico, doveva risalire il priù possibile ai tempi di Gesù. Questi due criteri illustrano sia la natura storica della fede cristiana sia la necessità avvertita dai primi cristiani di usare scritti che godevano di una vicinanza cronologica a Gesù. Il criterio dell’antichità, che rimane fondamentale tutt’oggi, è che i libri autorevoli devono risalire il più possibile al loro tema di fondo, Gesù. “L’antichità” è una premessa di fondo per l’attendibilità dei dati storici. Questo è anche il motivo per cui i Vangeli canonici coincidono con i vangeli più antichi pervenutici» (P.Ciavarella, Risposta a Inchiesta su Gesù, pp.23)

    Da questi pochi punti vediamo, cioè, come la canonizzazione dei testi sacri sia stato un percorso di tipo analitico e scientifico, assolutamente lontano dalle accuse che le vengono mosse. Potremo approfondire questo discorso in altra sede, se i lettori lo riterranno. Per il momento, torniamo a concentrarci sul tema principale di questo articolo, ossia il Vangelo di Matteo.

    L’autore
    Dei quattro Vangeli, quello di «Matteo» è forse il più discusso, in termini di paternità. La maggioranza degli studiosi è incline a sposare senza troppi problemi l’antica tradizione che vorrebbe farlo risalire al discepolo di Gesù, quindi ad un testimone oculare degli eventi riportati nella narrazione. Il problema, a questo punto, è comprendere il motivo che avrebbe spinto Matteo ad utilizzare così tanto materiale di Marco (che, lo ricordiamo, è servito da base sia a Matteo che a Luca), un vangelo che non è stato scritto da qualcuno che avesse osservato personalmente Cristo. Tuttavia, non è necessario passare attraverso la precisa determinazione dell’autore del Vangelo per poterne comprendere gli insegnamenti; d’altra parte, il testo originale è anonimo.

    Avendo comunque visto le brevi considerazioni sulla canonicità, possiamo tranquillamente appoggiarci al parere della chiesa primitiva, che vedeva appunto nel pubblicano Levi (poi Matteo) lo scrittore di quel vangelo così fortemente impregnato di ebraismo, nonchè di un acceso interesse per la legge veterotestamentaria.

    La datazione
    Esistono alcuni problemi sulla datazione del Vangelo di Matteo, e tali questioni trovano la loro origine in altre domande. Esso infatti deve essere stato redatto senza discussione dopo Marco, e dopo la raccolta di detti denominata «fonte Q». Questo ovviamente ci porterebbe ad una data sicuramente posteriore al 60 d.C., ma sulla base di questo solo punto, non possiamo determinare di quanto successiva.

    Molti studiosi sono d’accordo nel datare questo testo dopo quello attribuito a Luca, in quanto contiene allusioni alla caduta di Gerusalemme, avvenuta nel 70 d.C.. Come abbiamo già visto parlando di Marco, l’utilizzo dei brani predizionali per affermare una datazione posteriore a tali eventi è chiaramente un’asserzione forzosa, e la pretesa – da parte di alcuni – di una eventuale riscrittura della chiesa primitiva dei testi profetici alla luce di fatti successivi è già stata ampiamente additata come «ingenuo presupposto» dalla maggioranza degli esperti.

    In ultimo, alcuni fanno notare che, data la minuzia della descrizione ecclesiastica osservabile in Matteo, esso debba essere fatto risalire alla fine del I secolo. Ad ogni modo, confrontando tale scritto con la lettera redatta da Paolo, all’indirizzo della chiesa di Corinto (55 d.C. circa), notiamo che non esistono grosse differenze. Le diverse risposte alle questioni presentate ci spingeranno quindi a datare il testo di Matteo in modi differenti: come la maggior parte degli studiosi, negli anni 80 d.C. – 100 d.C. o prima del 70 d.C., oppure addirittura nel ventennio 40 d.C. – 60 d.C. (come Robinson, Guthrie, e alcuni studiosi tedeschi).

    La tesi, e la risposta
    Veniamo ora a quanto il Cascioli scrive nelle sue brevi considerazioni sul Vangelo di Matteo, per vedere se esse siano attendibili, o se si rivelino l’ennesimo polverone volto al tentativo di destabilizzare le persone.

    L’ex-sacerdote parte riportando la presentazione al Vangelo di Matteo presente sull’edizione CEI delle Sacre Scritture. Essa recita: «Scritto originariamente in Aramaico da Matteo, l’apostolo chiamato da Gesù al suo seguito distogliendolo dalla professione di esattore delle imposte, fu pubblicato tra il 40 e il 50». Stando a quello che abbiamo visto, questo inciso è da considerarsi pienamente pertinente alle trattazioni del mondo accademico: d’altra parte, sarebbe stupido asserire nozioni in aperto contrasto con quelle dell’intera comunità professionale.

    Ma il Cascioli non demorde, e rilancia:
    Cascioli: «La falsità della data attribuita dalla Chiesa al vangelo di Matteo ci viene incontestabilmente confermata da quel passo nel quale Gesù minaccia gli Ebrei di aver ucciso Zaccaria, figlio di Baracchia, che così recita: «..perché ricada su di voi (Ebrei) tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Baracchia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare». (Mt. 23,35). Sapendo da Giuseppe Flavio che l’assassinio di questo Zaccaria avvenne nel 67, cos’altro si può dedurre, oltre a rimarcare l’ignoranza di coloro che fanno recitare a Gesù, morto nel 33, un fatto che non poteva assolutamente conoscere, che la data in cui fu scritto il vangelo di Matteo non è quella del 40-50 attribuitagli dalla Chiesa ma bensì posteriore all’anno 67? «Basterebbe soltanto questo riscontro storico per dimostrare che i vangeli, oltre che ad essere stati scritti molto tempo dopo l’epoca ad essi assegnata, furono compilati senza il rispetto delle verità storiche da autori che, pur di costruire la figura di Cristo, gli misero sulla bocca parole assurde senza dubitare che avrebbero tradito, in un’epoca di minore credulità, la loro impostura e le loro invenzioni». (E.Bossi. Gesù Cristo non è mai esistito- Ed. La Fiaccola. pag. 99).»

    SoloVangelo: Dunque, Matteo dimostrerebbe di essere così stupido e superficiale, da riportare nel suo testo un avvenimento con il quale i suoi contemporanei avrebbero potuto sbugiardarlo? Sappiamo infatti che tale testo circolò per diverso tempo nel distretto di Antiochia di Siria, dopo la sua composizione. Se le cose fossero andate davvero in questo modo, la presunta falsità di datazione di questo Vangelo sarebbe stata provata ormai da secoli, senza aspettare che un ex-sacerdote in rotta con i suoi precedenti datori di lavoro coltivasse manìe da esegeta, spacciandosi per l’ennesimo nuovo latore di verità sconosciute.

    Il personaggio di Zaccaria, nome logicamente molto comune al tempo di Gesù, non va confuso infatti con lo Zaccaria che fu ucciso nel Tempio durante la prima rivolta giudaica del 67 d.C., bensì si riferisce allo Zaccaria profeta dell’Antico Testamento; la storia ci parla dello Zaccaria citato da Giuseppe Flavio come del figlio di un certo Baruc, mentre è il profeta omonimo che dice, al primo versetto del testo che prende il suo nome di essere «Zaccaria, figlio di Barachia, figlio di Iddo, il profeta». Quindi il brano di Matteo 23:35 ci parla, rispettivamente, del primo «martire» dell’Antico Testamento (Abele) e dell’ultimo (Zaccaria). L’Antico Testamento non ci dà alcuna indicazione su come morì il profeta, tuttavia, possiamo osservare nel racconto di 2 Cronache 24:20-21 della morte di un altro Zaccaria, figlio di Ieoiada, il quale fu lapidato nel cortile del Tempio, in conformità quindi con la descrizione fatta da Gesù.

    Vi è un solo manoscritto di Matteo che omette l’espressione «figlio di Barachia»: alcuni hanno pensato che lo Zaccaria del racconto di 2 Cronache fosse in realtà nipote di Ieoiada, e che il nome del padre fosse effettivamente Barachia. Ad ogni modo, vediamo come si tratti di un personaggio comunque veterotestamentario, martirizzato tra il Tempio e l’altare. Pertanto Gesù non solo ne era logicamente a conoscenza (facendo tali episodi parte della storia del suo popolo), ma voleva dare ad intendere come il periodo antico fosse effettivamente finito, e come da lì in avanti sarebbero cambiate le cose. Prendiamo quindi le parole del Bossi, rimasticate da Cascioli, per quello che sono: sproloqui senza fondamento, ricerche raffazzonate che vanno a scavare nella storia per trarne conclusioni assolutamente errate e faziose.

    Cascioli: Dunque, dimostrato che la data attribuita dalla Chiesa è falsa, quando fu scritto in realtà il vangelo canonico di Matteo? Sapendo che gli fu attribuito intestato libricino databile, come abbiamo visto, tra il 135 e il 150 (vedi cap. precedente – Documenti della prima metà del II sec. “Pseudo vangeli di Marco e di Matteo”), ci verrebbe spontaneo di rispondere che fu scritto in questo periodo, se non considerassimo che Papia lo definì come una semplice raccolta di sentenze: «Matteo riunì in aramaico alcune sentenze del Signore che ciascuno le tradusse come poteva». Siccome il vangelo di Marco non può essere quello a cui si riferisce Papia perché è tutt’altro che una raccolta di sentenze ma una vera e propria biografia di Gesù, cos’altro si può dedurre se non che il canonico sia una riproduzione ampliata dello pseudo Marco e quindi posteriore al 150? Deduzione che ci viene confermata anche dal passo in esso contenuto che attribuisce a Pietro il primato sulla Chiesa che per quasi tutta la metà del secondo era stato invece riservato a Giacomo. «E ancora un’altra prova confermante la sua datazione posteriore al 150 ci viene dal passo “Tu es Petrus” che poteva essere stato scritto soltanto dopo che la Chiesa prese la decisione di togliere a Giacomo il primato sulla comunità di Gerusalemme, che tutti i documenti precedenti al 150 gli attribuivano, per passarlo a Pietro» (Guy Fau. pag.92).

    SoloVangelo: Abbiamo visto come la pretesa di falsità della datazione sia infondata, e pertanto le successive asserzioni di Cascioli si trovano a cadere rovinosamente: nonostante questo, vediamo di discutere comunque quanto egli afferma, per non lasciare alcun interrogativo senza risposta. Matteo, in effetti, fu il redattore di altre versioni dell’omonimo Vangelo (anche se la datazione che ne da Cascioli è, come abbiamo visto, assolutamente errata), ma non si tratta di revisioni o pre-lavorazioni del definitivo, bensì di differenti rese linguistiche dello stesso testo: l’affermazione di Papia riportata dal Cascioli è la prova dell’esistenza di una versione di Matteo in aramaico, prima della stesura greca.

    Il riferimento alla «raccolta di sentenze» merita due parole in più: Cascioli vorrebbe infatti che l’affermazione di Papia indicasse uno scritto redatto pressappoco come il Vangelo apocrifo di Tommaso, una raccolta di affermazioni senza una struttura narrativa. Nello scritto originale di Papia, vediamo che l’espressione «le sentenze del Signore» è resa con il termine «logia», che significa «oracoli», o «discorsi»: il Nuovo Testamento utilizza molto questo termine quando intende riferirsi agli oracoli comunicati al popolo per bocca dei profeti veterotestamentari, e Gesù era considerato dai suoi seguaci come un «profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo» (Luca 24:19).

    Bruce afferma: «Isolando lo scritto che si trova alla base della «fonte Q» [menzionata sopra, ndR], ci si accorge come esso sia simile ai libri profetici dell’Antico Testamento. Tali scritti contengono normalmente la narrazione della chiamata del profeta al suo particolare ministero, con il resoconto dei suoi oracoli inseriti in una cornice narrativa» (F.F.Bruce, Possiamo fidarci del Nuovo Testamento, pag.50)

    Quando Papia asserisce che ciascuno tradusse i detti del Signore come meglio poteva, sta implicitamente dichiarando come fossero in circolazione differenti rese greche di uno stesso testo, cosa che spiegherebbe alcune differenze tra i discorsi di Gesù riscontrabili in Matteo e Luca: in molte parti in cui il greco di questi vangeli differisce, è possibile dimostrare come la matrice aramaica sia però la stessa. Tutto ciò, comuque, ben prima del 150 d.C.: il rimaneggiamento dei testi ad opera di persone diverse dagli autori in epoche successive, è da escludersi.

    Avendo poi dimostrato nel precedente articolo come datare Marco verso il 150 d.C. sia un’errore di proporzioni enormi, non ci soffermeremo su questo punto. Soltanto, commentiamo ancora l’affermazione secondo cui la chiesa primitiva tolse a Giacomo il primato sulla comunità di Gerusalemme. Forse chi asserisce questo ignora che Giacomo fu il primo apostolo ad essere ucciso, ma che fino a quel momento egli stesso, assieme a Pietro e Giovanni non svolgevano funzioni di «controllo» (in accezione negativa) sulla chiesa: erano senz’altro reputati importanti per la loro condizione (i tre appartenenvano infatti al “sottogruppo” di discepoli più vicini a Cristo), ma è importante notare come – subito dopo la formazione di assemblee cristiane nel mondo – essi rinunciarono a proporsi come «maestri della fede», ma, semplicemente, erano da considerarsi fratelli alla stregua di ogni altro credente sincero. Probabilmente, chi vuol vedere nella figura di Pietro un esempio di «tirannico controllore» lo fa perchè troppo scottato dalla figura di quell’uomo, vestito di bianco, che oggi pretende di rappresentare la norma alla quale adeguarsi. Grazie a Dio, però, la fede cristiana non equivale al moderno cattolicesimo!

    Cascioli: E ancora: « Il “Tu es Petrus” non può essere stato aggiunto nel vangelo di Matteo che dopo il 180 dal momento che è ancora ignorato da Ireneo in questa data» (Las Vergnas- op. cit. pag.41). Dunque è chiaro che il vangelo canonico attribuito a Matteo, essendo un ampliamento del libricino che era stato scritto tra il 135 e il 150, è stato redatto nella seconda metà del II secolo da falsari che non potevano essere stati testimoni di un Gesù dichiarato morto nell’anno trentatré.

    SoloVangelo: Rispondo che non è sulle supposizioni che si fonda uno studio serio. Il fatto che Ireneo non faccia riferimento a questa affermazione di Gesù non significa che essa non fosse già presente nello scritto di Matteo. Riflettiamoci – il fatto che ciascuno di noi, per tutta la vita, possa ignorare una determinata nozione relativa alla propria professione, fa di tale nozione qualcosa di inesistente? Chiaramente no, ogni uomo o donna ignora una marea di cose, anche in relazione al proprio campo di studio o lavoro. La mancata citazione, da parte di Ireneo, del «Tu sei Pietro» non è assolutamente un indizio serio: al più, può essere un segnale di non conoscenza, o di scarso valore assegnato al concetto. Ma non certo di inesistenza.

    Sempre a riguardo poi del presupposto primato petrino, discusso ampiamente nel passato, riporto quanto ho scritto nella prima parte di questi studi:

    Quest’osservazione nasce anzitutto da una cattiva comprensione della frase «tu sei Pietro»: con essa, Gesù non intendeva affatto mettere Pietro in una posizione di superiorità rispetto agli altri apostoli, né voleva dare il via ad una gerarchia ecclesiale. Su questo aspetto ho scritto abbondantemente alcuni giorni fa; si veda il seguente link per approfondire: http://www.solovangelo.it/2009/06/29/un-primato-di-paglia/

    In effetti, l’assenza di tale frase nella narrazione di Marco (sapendo che essa arriva proprio dalle parole di Pietro), non è altro che un rafforzativo rispetto al fatto che Gesù non abbia nominato suoi vicari o successori: perfino il testo scritto sotto la supervisione di «Petrus» non fa menzione di primati particolari! Ma il Cascioli si dimostra così aggressivo nei confronti della chiesa di Roma, da prendere un passaggio che necessita di studio per essere compreso appieno, per voler compiere, attraverso di esso, un duplice attacco: al Vangelo di Marco in primis, e poi alla gerarchia cattolica, reale mira del lavoro dell’ex-sacerdote.

    Spero vivamente che questa lettura sia stata proficua. Ricordo ai lettori la possibilità di approfondire la discussione attraverso i commenti; nella prossima “puntata”, tratteremo le tesi che Cascioli avanza nei confronti del Vangelo di Luca.
    Dio vi benedica.



    Confutando le tesi di Cascioli sui Vangeli, parte III

    Scritto da Emiliano Musso

    In questa terza parte del nostro scritto, analizziamo la posizione dell’ex-sacerdote Luigi Cascioli in merito alla veridicità ed affidabilità del terzo vangelo canonico, ossia quello avente la firma di Luca, autore, tra l’altro degli Atti degli Apostoli. Come già fatto in precedenza, prima di passare alla confutazione delle argomentazioni del Cascioli, vediamo alcune informazioni relative al vangelo stesso, per poi calarci nella trattazione storico/biblica di quanto l’ex-sacerdote afferma, e dimostrare anche in questo caso come gli attacchi al Testo Sacro si rivelino consistenti come bolle di sapone, che non possono sussistere davanti ad una analisi seria.

    L’autore
    Agli inizi del II secolo, iniziano a prendere corpo le tradizioni che collegano il terzo Vangelo con una persona di nome Luca: il Canone Muratoriano, il prologo anti-marcionita a Luca, così come Ireneo, Clemente Alessandrino, Origene e Tertulliano, sono concordi nell’identificare Luca con l’autore di tale testo. Dal momento che tali tradizioni poggiano comunque su elementi che possono essere dedotti dal Nuovo Testamento, il loro valore è relativo: l’evidenza neotestamentaria è maggiormente utile nell’identificazione dell’autore di questo vangelo. In effetti, si tratta di un testo particolare, perchè incompleto: la narrazione che inizia nel vangelo prosegue poi, senza interruzioni, negli Atti degli Apostoli, libro con caratteristiche di stile e forma così simili a quelle del Vangelo da suggerire che essi siano entrambi stati scritti da una stessa mano. Entrambi i testi sono indirizzati ad una persona di nome Teofilo, quali testimonianza del ministero di Cristo, e successivamente della nascita e dello sviluppo della prima chiesa.

    Nel libro degli Atti, possiamo notare diversi brani in cui l’autore intercambia il soggetto della narrazione da «essi» ed «egli» al pronome «noi», suggerendo quindi una sua compartecipazione agli eventi narrati, e pertanto il suo essere compagno dell’apostolo Paolo. Una accurata analisi dei racconti mostra come Luca sia appunto il redattore più probabile dei testi menzionati.

    L’apostolo Paolo definisce questo Luca come medico. In effetti, alcune sue narrazioni sono maggiormente «tecniche» in tal senso: basti pensare al racconto della guarigione della donna affetta da emorragia. Luca è menzionato tre volte nel Nuovo Testamento come compagno di Paolo, e nella sua letera ai Colossesi, l’apostolo specifica che no nera un ebreo. Lo stile dei testi attribuiti al medico fa pensare che egli fosse di lingua greca. Secondo Eusebio, Luca proveniva da Antiochia, in Siria.

    La datazione
    Compito assolutamente arduo, quello di datare con certezza il terzo Vangelo: incorporando gran parte del materiale edito da Marco, è logico pensare che esso sia stato redatto quando il lavoro di Marco era già terminato, ed era quindi in circolazione. Alcuni asseriscono che Luca doveva essere a conoscenza della distruzione di Gerusalemme, cosa che indicherebbe una scrittura posteriore al 70 d.C.; altri studiosi, invece, non accettando questa teoria assegnano al Vangelo una data anteriore, intorno agli anni 57-60 d.C.

    La tesi, e la risposta
    Veniamo ora alle tesi del Cascioli, ed alle risposte che riteniamo di fornire alle sue accuse. Come abbiamo visto nei precedenti articoli, relativamente ai Vangeli di Marco e Matteo, l’ex-sacerdote inizia la sua arringa citando la prefazione al Vangelo tratta dall’edizione C.E.I.: anche in questo caso egli ripropone lo stesso schema, per saltare subito alle sue conclusioni. Vediamolo nel dettaglio:

    Cascioli: Presentazione della Chiesa: «Luca, autore anche degli Atti degli Apostoli, fu un colto medico siriano convertitosi in Antiochia verso l’anno 43. Conobbe Cristo dai primi testimoni della sua vita e si preparò con accurata indagine. Luca svolge il suo lavoro su un materiale proveniente da ambiente palestinese, non escluso il contributo della stessa Madre di Gesù. Fu scritto fra il 65 e il 70». L’attribuzione a Luca, apostolo vissuto nella Comunità di Gerusalemme insieme a Pietro, Giacomo, gli apostoli e la Madonna, non può essere che fantastica. Dal momento che questo vangelo fu scritto per confutare i concetti gnostici del vangelo di Marcione, di conseguenza non può essere anteriore al 144. Per quanto la Chiesa cerchi, invocando l’autorità di Tertulliano, di dimostrare che fu Marcione ad imitare Luca, le prove che dimostrano che invece furono i redattori di Luca a ricopiare Marcione sono state ampiamente portate da Couchoud nel suo “Primi Scritti del Cristanesimo”.

    SoloVangelo: La prefazione C.E.I. conferma quanto abbiamo visto in apertura: essa indica in Luca un medico siro, datando il suo lavoro in un lasso di tempo che tutto sommato concorda con quanto abbiamo discusso. Ma il Cascioli non ci sta, e parte al contrattacco, spiegando come l’intento di Luca fosse dichiaratamente anti-marcionita e, pertanto, esso debba essere fatto risalire ad una data posteriore al 144 d.C.. Se avesse letto il Vangelo che pretende di commentare, Cascioli avrebbe scoperto però che per stessa affermazione dello scritto, il proposito originale era quello di rendere il destinatario del lavoro, il Teofilo citato poco sopra, «certo delle cose che gli sono state insegnate». È evidente quindi che Teofilo fosse un cristiano, e che Luca scrisse per aiutare lui (e presumibilmente altri) a comprendere meglio gli aspetti della fede cristiana. L’intento di Luca, per sua stessa ammissione, era quello di fare un dettagliato resoconto storico, perchè il messaggio che egli voleva esporre, per poter avere un peso reale, doveva essere fortemente ancorato alla realtà dei fatti. Non esiste un testo neotestamentario più calzante di Luca nel descrivere Gesù quale amico e Salvatore degli uomini, e questo era il proposito del medico: la chiesa del suo tempo aveva necessità di comprendere che la sua missione nel mondo era fondata sull’insegnamento e sull’esempio del Cristo. Rifiutiamo pertanto la tesi del Cascioli, che come sempre intende vedere cospirazioni laddove esse non hanno motivo di esistere.

    Piccola nota: facciamo presente che, contrariamente a quanto affermato dal Cascioli, Luca non è mai stato annoverato nella cerchia degli apostoli, ma era compagno di viaggio di uno di essi, ossia Paolo. Può sembrare una nota leziosa, inutile, ma riteniamo che quando si ha la pretesa di proporsi come una valida fonte di informazione per terze persone, si debba avere cura anche dei particolari, cosa che l’ex-sacerdote certo non dimostra.

    Cascioli: a) Noi sappiamo che il vangelo di Marcione è conosciuto nel 140 da Papia mentre quello di Luca è ignorato dallo stesso Papia nel 150. b) Il vangelo di Marcione era molto più corto di quello di Luca, e in questi casi non si accorcia mai, ma piuttosto si allunga. c) Numerosi passi di Luca hanno un evidente carattere anti-marcioniano. d) Per analogie di espressioni e uguaglianza di stile, tutto porta a credere che il vangelo attribuito a Luca sia stato scritto, almeno nella sua prima stesura, da Clemente, autore di una lettera ai Corinti, che è vissuto a Roma negli anni 155-165”. (Couchoud. Primi Scritti del Cristianesimo- Pgg. da 7 a 31).

    SoloVangelo: In merito al punto a), riteniamo sia quantomeno risibile il commento: abbiamo già precedentemente discusso di come la mancata citazione di uno scritto non equivalga né ad ignorarlo, e nemmeno sia evidenza della sua inesistenza, pertanto ci pare che il silenzio di Papia sul terzo Vangelo non sia affatto prova di una sua stesura successiva. I succesivi due punti, b) e c), si basano sul presupposto che Luca volesse contrastare l’insegnamento marcionita: abbiamo già indicato come questa finalità non corrisponda affatto a quella reale dell’evangelista. Inoltre, essendo senz’ombra di dubbio vissuto antecedentemente allo stesso Marcione, ci pare assurdo asserire che nei propositi di Luca fosse presente il contrasto ad un’eresia che non era ancora formata mentre egli scriveva. Tra l’altro, vedremo tra poco che Marcione stesso introdusse proprio il Vangelo di Luca nel suo canone. Il punto d) presenta invece un problema di esclusione logica: se, come è vero, il Vangelo di Luca ed il libro degli Atti sono attribuiti allo stesso autore per continuità narrativa ed uguaglianza stilistica (e tali testi siano risalenti senz’altro al periodo di intorno alla caduta di Gerusalemme), riteniamo azzardato tracciare un parallelo con testi di circa 80 anni più recenti rispetto a quelli analizzati.

    Questo punto ci offre comunque la possibilità di discutere la preparazione di coloro che vogliono affossare la veridicità dei Vangeli: come si è potuto leggere, costoro parlano di Clemente, autore di una lettera ai Corinti (quindi, stiamo parlando di Clemente Romano), come di un personaggio vissuto tra il 155 ed il 165 d.C.. Curioso, però, che fonti storiche comprovate (quali Eusebio di Cesarea e Girolamo) ci fanno sapere della sua morte, avvenuta nel 101 d.C.. Che dire dunque, di sedicenti esperti che si propongono quali «fari nella notte dell’ignoranza», e sono essi stessi ignoranti? Per usare le parole del Signore: «Medico, cura te stesso!».

    Cascioli: Il fatto poi che, da quanto è stato dimostrato da Marcello Craveri, almeno per il 90 per cento ricopia le sentenze dei vangeli gnostici e i vari papiri datati agli anni 130-135, non è un’altra inconfutabile dimostrazione che la data attribuitagli dalla Chiesa è indiscutibilmente falsa?

    SoloVangelo: Noi diremmo di no, dal momento che il lavoro di Luca trova la sua base ispiratrice – come già sottolineato – in Marco, quindi in un testo assolutamente non gnostico, e per giunta redatto ben precedentemente alle date proposte. Sottolineiamo inoltre come la datazione dei vari testi sacri non sia stata data loro dalla chiesa romana, bensì sia il risultato di varie tradizioni, delle quali si è poi cercata (e trovata) conferma scientifica: quelle che oggi esponiamo come date praticamente sicure, non sono campate in aria da religiosi, ma ricercate e comprovate da esperti nel campo del riscontro cronologico.

    Cascioli: Che il vangelo di Luca sia il risultato di continue sovrapposizioni che si sono susseguite per tutto il II secolo e oltre ci viene da Tatiano che nel suo Diatesserone, scritto nel 175, (libro che riuniva in un solo testo i quattro vangeli canonici), non riporta quella nascita di Gesù che fu appunto aggiunta, come nel vangelo di Matteo, soltanto tra la fine de II secolo e gl’inizi del III, cioè quando la Comunità di Roma, in seguito alle critiche degli oppositori che gli facevano rimarcare come potesse Gesù essersi incarnato se non aveva una nascita terrena, decise di farlo partorire da una donna, una donna vergine come veniva sostenuto per le divinità pagane nel Culto dei Misteri.

    SoloVangelo: Taziano (e non Tatiano come scrive il Cascioli) fu un cristiano siriaco che ebbe l’idea di redigere un testo il quale presentasse le narrazioni dei quattro Vangeli canonici utilizzando una soluzione di continuità: si tratta di un’opera unica, perchè tenta di combinare linearmente gli scritti evangelici: non per nulla è anche chiamato, a volte, col nome di “Armonia dei Vangeli”. Oggi non ne esiste alcuna copia, in quanto si tratta di un lavoro andato interamente distrutto per ordine del vescovo Teodoreto (423 d.C.), il quale volle, per la chiesa siriaca, l’adozione dei vangeli in forma separata, così come era d’uso nelle altre chiese cristiane. Ciò che sappiamo oggi del Diatessaron sono nozioni indirette, che ci arrivano dal commentario redatto da Efrem il Siro, dottore della chiesa. Ad ogni modo, è appena logico che la narrazione dell’Armonia fosse una sorta di «summa concisa» dei quattro Vangeli, pertanto probabilmente mancante di parti di essi, in favore di altri scorci. Insomma, la critica verso l’episodio della nascita di Cristo non sta assolutamente in piedi.

    Altra bufala storica è poi accusare la chiesa romana di aver introdotto la nascita verginale di Cristo come adattamento ai culti misterici pagani, quando abbiamo testimonianze di come la prima cristianità fosse ben a conoscenza di un tale dato. Inoltre (ma in questo caso si deve aver fiducia nel Testo Sacro quale Parola di Dio) notiamo la presenza di profezie veterotestamentarie sulla nascita del Messia, che fanno appunto riferimento alla verginità della madre.

    Cascioli: Un’altra prova dimostrante che la Nascita di Gesù fu aggiunta nei vangeli di Luca e di Matteo in epoca tardiva ci viene da Marcione per il fatto che di essa non fa alcuna menzione nella sua “Edizione Evangelica” che scrisse intorno al 170 per confutare i quattro vangeli.

    SoloVangelo: Abbiamo già discusso molte volte di come una mancata citazione non sia indizio di inesistenza. Ad ogni modo, riteniamo sia necessario soffermarsi brevemente sulla persona di Marcione, per toccare con mano quanto le tesi di Cascioli siano campate in aria. Marcione era un filosofo cristiano, le cui idee sarebbero poi state in seguito bollate di eresia. Durante una sua visita a Roma, egli elargì una cospicua donazione alla chiesa romana, ottenendone i favori e guadagnando di potersi fermare per ben cinque anni nella città ad insegnare la propria visione della fede cristiana. Scrisse in effetti molto, ma il suo lavoro più importante non uscì dalla sua penna, essendo un testo di cui curò l’edizione: stiamo parlando della «edizione evangelica» citata dal Cascioli. Tale «edizione» non aveva affatto lo scopo di confutare i Vangeli canonici, bensì era una rielaborazione dei testi ritenuti autorevoli sotto il profilo dottrinale, per adattarli alle tesi marcionite. Il canone di Marcione conteneva un solo vangelo (quello di Luca, per l’appunto), e dieci epistole. Tutto qui: Marcione era convinto che il Dio dell’Antico Testamento e quello del Nuovo fossero due entità separate, e che Gesù fosse stato inviato dal Dio neotestamentario, un Dio buono, per salvare l’umanità dall’ira del Dio degli Ebrei. Senza scendere troppo in dettaglio nel pensiero marcionita (cosa che richiederebbe molto tempo, e che ci farebbe finire fuori tema), sottolineiamo comunque come i testi inclusi dal filosofo nel suo canone abbiano subìto una sorta di «adattamento editoriale», ossia modifiche nei punti che sarebbero entrati in contrasto con quanto Marcione stesso si era proposto di insegnare.

    Per questo motivo, l’assenza della nascita e genealogia di Gesù nel testo adattato da Marcione non deve stupirci: come possiamo constatare leggendo il Vangelo di Luca, Gesù viene messo in diretto collegamento con il Dio veterotestamentario, proprio citando a ritroso i suoi antenati, fino a giungere ad Adamo, ed a Dio stesso, quale principio e radice della discendenza del Cristo. È chiaro come un brano del genere potesse mettere in grande crisi le tesi marcionite, e l’eliminazione di questa parte del testo dovette sembrare una «soluzione accettabile». Paradossalmente, considerando il pensiero di Marcione, potremmo dire che è proprio l’assenza di una tale narrazione a confermarne la reale esistenza!

    Cascioli: D’altronde per comprendere quanto la nascita terrena di Gesù sia il prodotto di falsificazioni, basta rimarcare la discordanza che c’è tra quella raccontata nel vangelo di Matteo e quella riportata sul vangelo di Luca la cui veridicità di quest’ultimo viene garantita dalla Chiesa dicendo che fu la stessa madre di Cristo a raccontargliela.

    SoloVangelo: Preferiamo tacere su fantasiose tradizioni, che hanno da sempre contribuito a fare apparire la fede come qualcosa di impalpabile, fondato sul nulla. Abbiamo prove storiche e critiche: che le invenzioni umane tacciano davanti ad esse!

    Cascioli: Comunque una cosa è certa: la qualifica di medico che viene data a Luca dalla Chiesa e la serietà che allo stesso viene conferita nella stesura del vangelo, risultano quanto mai discutibili dalla seguente semplice analisi dei seguenti passi:
    1) «Al tempo di re Erode, re della Giudea, il Signore rese grazia al sacerdote Zaccaria rendendo fertile Elisabetta sua moglie, già avanzata nell’età. Da essa nacque un figlio che chiamarono Giovanni. (Lc.1-5).
    2) Sei mesi dopo, lo stesso angelo che aveva annunciato a Zaccaria di essere diventato padre, si presenta a Maria e le comunica di essere incinta dello Spirito Santo. (Lc. 1-26).
    3) Dopo sei mesi dalla nascita di Giovanni, Maria, moglie di Giuseppe, partorì Gesù a Betlemme dove era andata per via del censimento ordinato da Quirinio, Governatore della Siria». (Lc. 2-1).
    Basta fare un semplice calcolo tra la data del concepimento e la data del parto, per renderci conto come il redattore del terzo vangelo, oltre a non aver eseguito “accurate indagini”, non era certamente neppure un medico. Sapendo che Erode, re di Giudea è morto nell’anno – 4 e che il censimento c’è stato negli anni +6 e +7, cosa esce fuori? Esce fuori che la Madonna ha avuto una gravidanza, come minimo, di undici anni. …e ancora una volta Catilina abusa della nostra pazienza!
    Finita la risata, voglio aggiungere che questa è una prova determinante per dimostrare che chi ha scritto il terzo vangelo non è stato un dotto medico siriano che ha riportato fatti veramente accaduti mentre lui era in Palestina, ma bensì un somaro pagano che s’inventò come poté tutta una storia per giustificare, attraverso una nascita terrena, l’incarnazione di Cristo.

    SoloVangelo: Vediamo ora se il titolo di «somaro pagano» sia davvero da riferirsi al terzo evangelista, oppure se non sia una proiezione che sarebbe meglio affibbiare ai suoi detrattori.
    Cito alcune informazioni dall’ottimo commentario di John MacArthur:

    Publio Sulpicio Quirino è noto per aver governato la Siria negli anni dal 6 al 9 d.C. Un noto censimento ebbe luogo in Israele nel 6 d.C. Giuseppe Flavio racconta che tale misura provocò una violenta rivolta giudaica (menzionata da Luca, che cita Gamaliele, in Atti 5:37). Quirinio era responsabile dell’organizzazione del censimento e ricoprì anche un ruolo fondamentale nella repressione della successiva rivolta. Comunque, tale censimento ebbe luogo circa un decennio dopo la morte di Erode ed è troppo tardivo per collimare con la cronologia di Luca. Alla luce della meticolosa accuratezza dell’evangelista come storico, sarebbe irragionevole accusarlo di un anacronismo così palese, cosa che invece il Cascioli sembra voler fare. L’archeologia ha infatti res giustizia a Luca: un frammento di pietra scoperto a Tivoli nel 1764 d.C. contiene un’iscrizione in onore di un ufficiale romano che, si legge, fu due volte governatore della Siria e della Fenicia durante il regno di Augusto. Il nome dell’ufficiale non è presente sul frammento, ma fra le sue imprese sono citati dettagli che, per quanto ci è dato di conoscere, non possono riferirsi ad altri che a Quirinio.

    Dunque, questi deve essere stato governatore della Siria due volte. Egli fu probabilmente governatore militare all’epoca in cui Varo era, storicamente, governatore civile in quella regione. Per quanto riguarda la datazione del censimento, alcuni antichi documenti trovati in Egitto menzionano un censimento mondiale ordinato nell’8 a.C. Nemmeno questa datazione è immune da problemi. Gli studiosi sono generalmente concordi nel situare la nascita di Cristo attorno al 6 a.C. al più presto. Evidentemente il censimento fu ordinato da Cesare Augusto nell’8 a.C., ma non ebbe in realtà luogo in Israele se non due o quattro anni più tardi, forse a causa delle difficoltà politiche esistenti fra Roma ed Erode. Pertanto non possiamo determinare con certezza l’anno della nascita di Cristo, ma possiamo affermare che non fu probabilmente prima del 6 a.C. né certamente dopo il 4 a.C. I lettori di Luca, avendo familiarità con la storia politica di quel periodo, sarebbero stati in grado senza troppe difficoltà di individuare una data precisa sulla base delle informazioni fornite da Luca.

    Luca fu quindi uno storico di prim’ordine, che volle realmente dare la possibilità ai suoi lettori di conoscere il Cristo, mostrando loro come si trattasse di un personaggio reale, al quale ci si poteva riferire in termini di coordinate storiche. Quelle stessa coordinate che, secondo il pensiero scritturale, rappresentarono la perfetta pienezza dei tempi, nella quale Gesù Cristo, quale Dio incarnato, volle caricare su di sé i nostri peccati, per dare a ciascuno la possibilità della riconciliazione con Dio, attraverso la fede nel suo sacrificio espiatorio.

    Ancora una volta, spero che le informazioni che abbiamo voluto trattare siano risultate interessanti per i nostri lettori. Invitandovi, come sempre, ad esprimere i vostri commenti, vi rimandiamo alla prossima puntata, in cui tratteremo le accuse mosse contro il quarto Vangelo, ossia quello attribuito all’apostolo Giovanni, il discepolo che Gesù amava.


    Confutando le tesi di Cascioli sui Vangeli, parte IV

    Scritto da Emiliano Musso

    In questo quarto ed ultimo articolo, dedicato alla confutazione delle tesi dell’ex-sacerdote Luigi Cascioli in merito ai Vangeli canonici, abbiamo deciso di adottare uno stile leggermente differente rispetto ai tre articoli precedenti: mentre nel caso dei tre sinottici abbiamo prima presentato una sorta di “scheda riepilogativa” di ciascun Vangelo, contenente alcune informazioni sui vari testi, e solo in seguito ci siamo calati nella critica delle accuse, questa volta affronteremo direttamente la confutazione di quanto proposto dal Cascioli, fornendo mano a mano le nozioni utili a comprendere quanto trattato.
    Ci auguriamo che quanto andiamo ad esporre possa rappresentare, assieme a quanto già detto in passato, un’utile fonte alla quale attingere per rendersi conto della debolezza di certe tesi, che vorrebbero affondare la storicità della Parola di Dio.

    La tesi, e la risposta
    Cascioli: Presentazione della Chiesa: «L’antica tradizione ecclesiastica afferma che il IV vangelo fu scritto dall’apostolo Giovanni, il prediletto di Cristo, quando aveva raggiunto l’estrema vecchiezza nella comunità cristiana di Efeso, metropoli dell’Asia Minore. Il vangelo fu scritto verso l’anno 100 e il più antico manoscritto che lo tramanda è del 150, al massimo del 200». (Dalla Sacra Bibbia – Ed. C.E.I.). Anche se basterebbe considerare che questo vangelo è uscito dopo gli altri tre, posteriori tutti al 150, per dimostrare che la data del vangelo di Giovanni non è l’anno 100 ma bensì l’anno 200 che la Chiesa gli dà come manoscritto riproducente la versione originale.

    SoloVangelo: Come abbiamo già dimostrato nei precedenti articoli, ai quali rimandiamo per maggiori dettagli, i tre Vangeli sinottici sono stati redatti ben prima delle datazioni proposte dal Cascioli, e anche ipotizzando una scrittura tardiva del quarto Vangelo, non raggiungeremmo comunque l’anno 200. Sottolineiamo inoltre come sia necessario qualche dato in più per posizionare cronologicamente un manoscritto, che il semplice confronto con fonti più o meno parallele. Vedremo a breve come il problema della datazione di Giovanni sia più complesso di ciò che si vuole far credere nelle accuse, e potremo inoltre notare come il raggio entro cui circoscriverlo sia più ristretto e preciso di quanto appaia nelle premesse dell’edizione C.E.I. e del Cascioli.

    Cascioli: «La data attribuita all’anno 100 al quarto vangelo è in realtà molto più tardiva se consideriamo che nessuno prima di Ireneo parla di esso verso il 190. Lo ignorano Marcione, Giustino (autore di due apologie sul cristianesimo, morto nel 165), Papia che viveva ad Efeso nello stesso periodo nel quale Giovanni avrebbe scritto il vangelo non ne fa menzione e lo ignora persino Policarpo che, secondo la Chiesa, era discepolo dello stesso Giovanni.». (Las Vergnas. op. cit.. pag. 37). E ancora: «L’attribuzione di questo vangelo a un discepolo di Gesù è di per se già sufficiente a rendere inaccettabile l’autenticità dell’autore per i suoi contenuti filosofici e teologici: cosa ne poteva sapere un ignorante pescatore della Galilea della dottrina neo-platonica del Logos? Il Vangelo è citato per la prima volta da Ireneo nel 190. Esso deve essere di poco anteriore a questa data poiché, oltre a considerare già compiuta la separazione tra i cristiani e i giudei, esprime la fusione del Cristo incarnato con il Logos di Filone e degli gnostici che si realizzò soltanto nella seconda metà del II secolo. Il valore storico dell’opera è quindi nullo. Ma esso lo è ancora di più per la discordanza su numerosi fatti riportati sugli altri tre vangeli. Infine, altra prova determinante per stabilire la sua tardività è il suo anacronismo determinato dai numerosi inni liturgici che riporta i quali dimostrano l’esistenza di un’organizzazione di culto già in atto.» (Guy Fau. op.citata. pag. 94).

    SoloVangelo: Ancora una volta facciamo notare, come già fatto in precedenza, come la mancanza di citazione non debba per forza tradursi in “inesistenza”. Ad ogni modo, le prove esterne che vengono citate dal Cascioli contro questo Vangelo sono assolutamente inesatte. F.F.Bruce, nel suo testo “Possiamo fidarci del Nuovo Testamento?”, riporta a questo proposito le seguenti considerazioni: «Abbiamo già citato la testimonianza del papiro che attesta una data precoce. Ignazio, il cui martirio ebbe luogo all’incirca nel 115 d.C., fu influenzato dall’insegnamento particolare di questo Vangelo; Policarpo, scrivendo alla chiesa dei Filippesi poco dopo il martirio di Ignazio, cita la prima Epistola di Giovanni la quale, secondo l’opinione di Lighfoot, Westcott e altri, era unita al Vangelo come lettera di accompagnamento, o comunque era strettamente collegata a esso. Lo gnostico Basilide (130 d.C. ca.) cita Giovanni 1:9 come “nei Vangeli”. Giustino Martire (150 d.C. ca.) cita dal racconto di Nicodemo in Giovanni 3. Il suo discepolo Taziano (170 d.C. ca.) include il quarto Vangelo nel suo Diatessaron [o Armonia dei Vangeli: ne abbiamo discusso in un precedente articolo, NdR]. Più o meno nello stesso periodo Melitone, vescovo di Sardi, mostra nelle sue Omelie pasquali una qualche dipendenza da questo Vangelo.

    Per quanto concerne poi la figura di Papia, facciamo notare che egli stesso ci fornisce, nella sua “Esegesi dei detti del Signore” (130-140 d.C. ca.), una testimonianza piuttosto forte della paternità giovannea del testo, dal momento che sostiene di aver redatto una copia di questo Vangelo sotto dettatura di Giovanni l’anziano, quest’ultimo discepolo dell’omonimo apostolo. Altro che testo sconosciuto! Ci rammarica vedere come coloro che intendono screditare le Sacre Scritture siano pronti a torcere perfino la realtà storica, pur di piegarla ai loro propositi.

    Ancora, relativamente alla questione del concetto di “Logos”, vediamo come nel II secolo l’unica voce dissenziente sembra provenire da persone che non gradivano la presentazione di una tale dottrina nel prologo, negando quindi la redazione apostolica per ascriverla ad un certo Cerinto, eretico famoso vissuto alla fine del I secolo. Epifanio chiama queste persone alogoi, non soltanto per indicare che essi avevano rifiutato la dottrina del Logos, ma anche per descriverli come personaggi privi di logos, ossia di ragione. L’unica persona rilevante ad essi collegata pare fosse un certo Gaio di Roma (200 d.C. ca.), un ecclesiastico ortodosso eccetto che per il rifiuto del quarto Vangelo e dell’Apocalisse. Accantonando tali personaggi, il Vangelo è stato generalmente accettato nel II secolo sia da ortodossi che eretici.

    Cascioli: E ancora più interessanti, se possiamo dire questo, sono le osservazioni di Turmel tra le quali viene confutato quel documento di “Reyland” databile al 130 che, riportando il nome di Giovanni, la Chiesa porta come prova per dimostrare che il IV vangelo fosse già esistente in questa data. «Un’analisi approfondita sul vangelo di Giovanni ci permette di distinguere in esso tre stratificazioni integrative successive. a) Un racconto aneddotico della vita di Gesù, che sarebbe più vecchio di tutto il resto, possiamo trovarla nello pseudo-Giovanni dal quale viene tratto il vangelo canonico di Giovanni. Nello pseudo Giovanni infatti vengono riportati degli aneddoti sulla vita di Cristo scritti da un certo Giovanni detto il Presbitero, morto a Efeso, nel 135, il quale però non ha nulla a che vedere con il Giovanni discepolo di Gesù. Tutto fa pensare che la Chiesa si sia servita di questo Giovanni detto il Presbitero per costruire la figura di Giovanni l’evangelista» (Turmel. Il Vangelo di Giovanni. Bolletino del Circolo Rnan, Gennaio del 1962).

    SoloVangelo: Ancora una volta, le fonti di Cascioli pongono un manoscritto ad una datazione eccessivamente tardiva rispetto alla sua reale cronologia. In merito al papiro Rylands (o p52), lasciamo la parola alle ottime osservazioni di Vittorio Messori, nel suo libro “Ipotesi su Gesù”, Sei, Torino 1979, p. 175-176:

    Nel 1935 (poco dopo, cioè, il libro del Couchoud che volgarizzava la tesi mitica) l’inglese Roberts pubblicava un papiro, il P. 52 o Rylands greco, scoperto tra le sabbie del Medio Egitto. Un semplice frammento ma di importanza decisiva: si tratta di 114 lettere greche del vangelo di Giovanni. È fuori discussione che sono state scritte non più tardi dell’anno 125. Ora, il vangelo di Giovanni è per ammissione unanime l’ultimo in senso cronologico.

    Caposaldo dei mitologi (ma anche di molti critici) era che quel testo fosse stato scritto dopo il 150 sino al 200. Soltanto con questa datazione si poteva sperare di avere il tempo necessario per il precisarsi del mito. Il papiro Rylands greco ha tolto quella possibilità. Si è pure dimostrato infatti che il frammento trovato in Egitto è la copia di un originale scritto ad Efeso: quindi già attorno al 100 il più tardo dei vangeli aveva la sua forma definitiva. Mentre Gesù, per i mitologi sarebbe stato inventato «dopo» il 100… (6)

    6) A proposito di papiri e, in generale, di testi arcaici del Nuovo Testamento notiamo che, a giudizio unanime degli specialisti, “nessun libro dell’antichità è stato trasmesso con tanta accuratezza, abbondanza e antichità di manoscritti come il Nuovo Testamento” (Thiel). Sono conosciuti attualmente ben 4.680 antichi testi neotestamentari, tra cui una settantina di papiri. Al di là dei frammenti (pur di importanza decisiva, primo tra tutti il P. 52) nel 1956 è stato pubblicato il P 66: contiene per intero proprio il vangelo di Giovanni. La datazione è all’anno 150. Gran parte del Nuovo Testamento è nel P. 45, ritrovato tra le sabbie d’Egitto nel 1930: è anteriore all’anno 200.
    Per capire con quale inaudita autorità testuale si presenti il Nuovo Testamento, occorre osservare che per gli scrittori greci il tempo che intercorre tra l’originale e il primo manoscritto in nostro possesso è di almeno milleduecento anni. Per Eschilo (vissuto tra il 525 e il 456 a.C.) il primo manoscritto di una sua tragedia è del secolo XI d.C. Tra stesura e copia un intervallo di qualcosa come 1.500 anni!
    Malgrado questa situazione, lo studio critico degli autori classici non ha mai pensato di negare in blocco l’autenticità dei testi o addirittura l’esistenza storica dell’autore. Il sospetto, la negazione, il rifiuto sembrano da certa critica riservati solo a Gesù di Nazareth. Ecco infatti il Donini che senza procedere a confronti con la situazione degli altri testi antichi, tanto per mantenere viva nel lettore la sfiducia nella storicità dei vangeli, scrive che questi “sono giunti a noi in una tradizione manoscritta assai tarda” e che “i più antichi risalgono a notevole distanza dalla redazione primitiva”. Ci si chiede che cosa si dovrebbe dire dello studioso, ad esempio, di Platone che lavora su manoscritti separati da 13 secoli dall’originale.

    Per quanto invece concerne l’accenno al cosiddetto “pseudo-Giovanni”, va detto che, rimuovendo dal Vangelo il prologo, il testo prende una forma decisamente ebraica, attenuata appunto dal prologo, che trasforma il Vangelo in un libro maggiormente adatto ad un’utenza greca. È del tutto possibile che l’incipit del testo sia stato aggiunto in un secondo tempo, probabilmente dopo il completamento del lavoro originale. Vediamo inoltre come il passaggio “anomalo” tra il capitolo 20 ed il 21 facciano anch’essi pensare ad un’aggiunta posteriore, anche se lo stile ed il linguaggio sono così vicini a quelli del resto del Vangelo da far ipotizzare che essi siano stati compilati dallo stesso autore del testo. Appare possibile – secondo John Drane – che il Vangelo sia stato scritto prima in Palestina, per dimostrare che «Gesù è il Cristo». L’autore forse si rivolgeva agli ebrei settari influenzati da idee come quelle di Qumran. Poi, quando si vide che lo stesso insegnamento era valido per gente di altre parti dell’impero romano, il Vangelo fu riveduto: furono spiegati gli usi e le espressioni ebraiche e furono aggiunti il prologo e l’epilogo. Alcune parole del capitolo 21 fanno pensare che la stesura finale del Vangelo possa essere stata diretta a una comunità giudeo-cristiana del mondo ellenistico, forse a Efeso.

    Cascioli: b) Il prologo comportante l’identificazione del Cristo con il Logos di Filone che non era stata ancora realizzata dal nuovo cristianesimo prima del 165 come dimostra Giustino che la disconosce nelle sue due “Apologie sul Cristianesimo” scritte appunto in questa data. c) Numerose interpolazioni romane che falsano il senso di alcuni passaggi. Da notare infine che secondo il “Canone di Muratori”, (datato all’anno 200), risulta il IV vangelo essere un’opera collettiva redatta da una equipe di discepoli ispirati che si sono messi d’accordo per mettere tutto sotto il nome di Giovanni. Il vangelo di Giovanni è poi così impastato di concetti tratti dalla gnosi da ritenere assurda ogni pretesa che lo ponga precedente agli anni 150-160.

    SoloVangelo: Se abbiamo già discusso poco sopra la questione legata al “Logos”, notando come in realtà si trattasse di un aspetto largamente accettato, intendiamo spendere alcune parole in più sul Canone Muratori: ancora una volta, infatti, il Cascioli propone citazioni da testi che in realtà affermano proprio il contrario di quanto egli vorrebbe. Osserviamo infatti un piccolo scorcio di tale documento, notando come esso indichi proprio nell’apostolo Giovanni l’autore del quarto Vangelo:

    «Il quarto degli evangeli (è quello) di Giovanni, (uno) dei discepoli. Poiché i suoi discepoli e vescovi lo esortavano, disse: «Digiunate con me per tre giorni da oggi e ci racconteremo a vicenda ciò che ad ognuno verrà rivelato». In quella stessa notte fu rivelato ad Andrea, (uno) degli apostoli, che Giovanni doveva mettere tutto per iscritto in nome proprio, mentre tutti (lo) avrebbero esaminato»

    Ecco che diventa istantaneamente chiara l’asserzione evangelica in Giovanni 21:24, la quale recita: «e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera». Lo scritto di Giovanni fu cioè esaminato con cura, ricevendo poi il benestare di coloro che avevano il compito di controllare nel dettaglio la correttezza della narrazione. Abbiamo inoltre un altro documento, ancora più importante in tal senso, ossia il prologo antimarcionita a Giovanni, che ci fa sapere quanto segue:

    «Il Vangelo di Giovanni fu redatto e dato alle chiese da Giovanni stesso mentre era ancora in vita, così come un uomo di Ierapoli, di nome Papia e caro discepolo di Giovanni, ha riportato nei suoi cinque libri esegetici. In realtà, egli scrisse il Vangelo correttamente sotto dettatura di Giovanni. Ma l’eretico Marcione fu espulso da Giovanni, dopo essere stato da lui ripudiato a causa dei suoi sentimenti contrari. Egli aveva portato degli scritti, o delle lettere, dai fratelli del Ponto»

    Va da sé che due testimonianze come queste, che indicano in Giovanni l’autore del testo in analisi, affermano implicitamente come la stesura del testo non possa certo essere fatta risalire ad una data successiva al 100 d.C.

    Rimanendo a disposizione di tutti i lettori che volessero porre domande su quanto abbiamo visto, chiudiamo questa breve serie di approfondimenti legati alla confutazione dei deboli attacchi di Cascioli alla veridicità dei Vangeli canonici. Speriamo che le nostre considerazioni abbiano contribuito a fugare dubbi su questo argomento, sottolineando al contempo la «solidità storica» della Parola di Dio, che resiste inalterata alle accuse di sedicenti «esperti», i quali vengono inevitabilmente scoperti essere abili imbonitori con la missione di sviare le persone dal riconoscere nelle Sacre Scritture l’unico vero messaggio di vita e riconciliazione che il nostro Creatore ha voluto donarci.

    Che Dio possa continuare ad illuminare la mente ed il cuore di tutti coloro che lo ricercano con cuore sincero, e voglia proteggerli dai «lupi rapaci» intenzionati a divorarli nel cammino.

    L’invenzione dell’omofobia.

    La proposta di legge sulla cosiddetta omofobia era prevista nel programma elettorale di PD + IdV e non era prevista nel programma di PdL + Lega. PdL e Lega però non l’hanno voluta fermare in sede di Commissione, e così il 12 ottobre la proposta di legge (relatrice la PD Anna Paola Concia) è andata in discussione in Parlamento. Stoppata grazie alla pregiudiziale di incostituzionalità proposta dall’UdC e approvata a maggioranza, la proposta di legge tornerà, stavolta con un disegno di legge presentato dal Governo.
    Tutto questo “volerla approvare a tutti i costi” è già una prima vittoria per la lobby gay, che ha inventato l’omofobia per zittire il dissenso.
    Mia moglie e io nel 1980 formammo una famiglia, società naturale fondata sul matrimonio, i cui diritti sono riconosciuti dalla Costituzione. Desideravamo dei figli, e questo veniva incontro alle necessità della società, che ha bisogno di 2,1 figli per donna per sussistere. I figli nacquero attraverso rapporti sessuali matrimoniali. Vedete qualcosa di anormale in questo percorso? Niente di anormale, è un percorso normale.
    Eppure la lobby gay ci ribattezzò “eterosessuali”, e nessuno ha reagito. Io rifiuto la neolingua gay e riaffermo che il mio percorso non è “eterosessuale”, è semplicemente un percorso “normale”, non avendo in sé niente di anormale.
    La distinzione da fare è tra rapporti sessuali e rapporti omosessuali: questi ultimi sono scelte personali (sottolineo “scelte”: una persona può avere tendenze omosessuali e scegliere di NON avere rapporti), sono infecondi e privi di rilevanza sociale. Ma la neolingua gay parlò di rapporti “eterosessuali e omosessuali”, come se fossero due opzioni sullo stesso piano. Io rifiuto la neolingua gay e continuo ad affermare la distinzione tra rapporti sessuali, potenzialmente fecondi e rilevanti per la società, e rapporti omosessuali, scelte personali infeconde e irrilevanti per la società.
    Poi qualcuno cominciò a sostituire la parola “omosessuale” con la parola “gay”. Più spiccio, dicevano. Spiccio e falso: omosessuale e gay non sono sinonimi. Gli omosessuali non gay sono la maggioranza: sono persone riservate, che non amano il chiasso, che non vanno in TV e non sfilano in piazza, che non rivendicano diritti particolari. Ognuno di noi ne conosce qualcuno.
    Nelle nostre menti però tutti gli omosessuali si sono trasformati in militanti gay, e questo falsa completamente il dibattito. Io rifiuto la neolingua gay e riaffermo che la maggioranza degli omosessuali sono “omosessuali non gay”.
    Poi la lobby gay inventò il “genere”. Solo una parola elegante da usare al posto di “sesso”? No, un’invenzione ideologica che sostituisce i due sessi, reali e constatabili alla nascita di ognuno, con 5 o 7 opzioni di “genere”, di carattere culturale. Io rifiuto la neolingua gay e continuo ad affermare che i sessi sono due e sono un dato genetico constatabile da chiunque in natura; il resto sono opzioni personali, irrilevanti per la società.
    Poi la lobby gay inventò l’omofobia. Ha un “suono” simile a una malattia (claustrofobia, aracnofobia,…), ma è una malattia inesistente, inventata dall’ideologia gay per i suoi scopi. Conoscete casi di persone rifiutate sul lavoro perché omosessuali? Conosco invece casi di ragazze rifiutate perché giovani spose a rischio di maternità.
    Persone omosessuali siedono in Parlamento, sono ai vertici di diverse regioni, sono presenti nel mondo dell’arte, del teatro, della TV, del cinema, della letteratura, della moda, nelle università e nelle scuole di ogni ordine e grado, hanno una disponibilità di reddito ben superiore alla media, hanno organizzazioni nazionali a loro disposizione: la discriminazione non esiste, anzi qualche illustre personaggio afferma che l’essere gay l’ha aiutato nella carriera.
    La finta malattia detta “omofobia” serve solo a zittire coloro che contestano l’ideologia gay (si dà dell’omofobo un po’ come un tempo si dava del fascista). Io rifiuto la neolingua gay e affermo che non esiste discriminazione basata “sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” (che sono libere opzioni personali modificabili nel tempo), mentre c’è una chiara discriminazione per la famiglia “costituzionale”, società naturale fondata sul matrimonio.
    “Ma ci sono le aggressioni ai gay!”, dirà qualcuno. A parte che la fumosità delle statistiche su queste aggressioni è totale (ad esempio: nessuno ci comunica quante aggressioni a gay sono fatte da altri gay; nessuno fa una statistica sull’ambientazione di queste aggressioni), le aggressioni ai gay vanno perseguite e punite come ogni altra aggressione. Col passaggio di questa legge, accadrà che un’aggressione a me o a voi verrà punita con meno rigore rispetto all’aggressione a un gay. Io rifiuto l’ideologia gay e sostengo che un’aggressione alla mia persona debba essere punita con lo stesso rigore dell’aggressione a un gay.
    Viene già usata la parola “omocrazia”? Prima o poi bisognerà usarla. In un’Italia in cui si può satireggiare chiunque fino all’insulto, con l’approvazione di questa proposta di legge un militante gay non potrà nemmeno essere contraddetto. Se passa la legge in Parlamento, nasce una nuova “casta” intoccabile.
    Giovanni Lazzaretti - San Martino in Rio (RE)

    08 ottobre 2009

    Libertà e verità

    Autore: Card. Joseph Ratzinger

    Fonte: Studi Cattolici, 430, dicembre 1996
    mercoledì 27 aprile 2005

    Nella coscienza dell’umanità di oggi la libertà appare largamente come il bene più alto, al quale tutti gli altri beni sono subordinati. Nella giurisprudenza la libertà dell’arte, la libertà di espressione del pensiero hanno sempre la preminenza su ogni altro valore morale. Valori che entrino in concorrenza con la libertà, che possano indurre a limitarla, appaiono come vincoli, come “tabù”, cioè come relitti di arcaici divieti e timori. L’agire politico deve legittimarsi per il fatto che favorisce la libertà. Anche la religione può continuare a essere accettabile solo nella misura in cui si presenta come forza liberatrice per le singole persone e per l’umanità nel suo insieme. Nella scala dei valori, dai quali dipendono l’uomo e la sua vita umanamente degna, la libertà appare decisamente come il vero valore fondamentale e come il diritto umano fondante. Ci accostiamo invece piuttosto con sospetto alla nozione di verità: ci si ricorda al riguardo di tutti quei sistemi e opinioni per i quali già in passato si è preteso il concetto di verità; quante volte, in tal modo, la pretesa di verità fu un mezzo per opprimere la libertà. A ciò si aggiunge lo scetticismo, alimentato dalle scienze della natura, nei confronti di tutto quanto non sia matematicamente spiegabile o documentabile: tutto in ultimo sembra essere solo valutazione soggettiva, che non può pretendere alcun carattere vincolante comune. L’atteggiamento moderno nei confronti della verità si rivela nel modo più chiaro nella domanda di Pilato: che cos’è la verità? Chi con la sua vita e con la sua parola e azione afferma di essere al servizio della verità, deve essere preparato a venir classificato come sognatore o come fanatico. Infatti “lo sguardo sull’aldilà ci è interdetto”; queste parole di Goethe, tratte dal Faust, connotano la sensibilità di tutti noi.
    Indubbiamente, davanti a una pretesa di verità che si presenti con troppa sicurezza, vi sono sufficienti motivi per chiedere con prudenza: che cos’è la verità? Ma vi sono altrettanti motivi per porre la domanda: che cos’è la libertà? Cosa intendiamo in realtà quando esaltiamo la libertà e la collochiamo sul gradino più alto della nostra scala di valori? Io credo che il contenuto collegato in generale al desiderio di libertà sia illustrato in modo preciso nelle parole con le quali, una volta, Karl Marx ha espresso il suo sogno di libertà. La condizione della futura società comunista renderà possibile “fare oggi questo, domani quello, al mattino andare a caccia, al pomeriggio pescare, a sera dedicarsi all’allevamento del bestiame, dopo la cena discutere di quanto al momento avrò voglia [...]” [K. MARX - F. ENGELS, Werke, Berlin 1961-1971, vol. 3, p. 33; citazione da K. LÖW, Warum fasziniert der Kommunismus?, Köln 1980, p. 65]. Proprio in questo senso la mentalità media irriflessa intende con libertà il diritto e la possibilità di fare tutto ciò che si desidera in un determinato momento e di non dover fare quello che non si vuole. Detto altrimenti: libertà significherebbe che la propria volontà sia l’unica norma del nostro fare e che essa possa volere tutto e abbia anche la possibilità di mettere in pratica tutto ciò che è voluto. A questo punto emergono ovviamente degli interrogativi: quanto è libera in realtà la volontà? E quanto è ragionevole? E una volontà irragionevole è una volontà veramente libera? Una libertà irragionevole è davvero libertà? È veramente un bene? La definizione della libertà a partire dalle possibilità della volontà e dalle possibilità di mettere in pratica ciò che è voluto non deve dunque essere completata mediante il legame con la ragione, con la totalità dell’essere umano, affinché non si giunga alla tirannia dell’irrazionalità? E non apparterrà alla collaborazione fra ragione e volontà di cercare anche la ragione comune a tutti gli uomini e, dunque, la reciproca tollerabilità delle libertà? È evidente che nella questione della ragionevolezza della volontà e del suo legame con la ragione si nasconde implicitamente anche la questione della verità.
    A tali questioni ci costringono non soltanto astratte riflessioni filosofiche, ma tutta la nostra concreta situazione sociale, in cui effettivamente l’esigenza di libertà è continua, anche se invero sempre più drammaticamente si manifestano dubbi verso tutte le forme dei movimenti di liberazione e dei sistemi di libertà finora conosciute. Non dimentichiamo che il marxismo si è presentato come una grande forza politica del nostro secolo con la pretesa di dischiudere il nuovo mondo della libertà e dell’uomo liberato. Proprio questa sua promessa di conoscere la via scientificamente assicurata verso la libertà e di saper costruire il mondo nuovo gli ha guadagnato molti degli spiriti più audaci della nostra epoca; in definitiva, il marxismo appariva come la forza per mezzo della quale la dottrina cristiana della redenzione poteva trasformarsi in una realistica prassi di liberazione; come la forza per far giungere il regno di Dio in quanto vero regno dell’uomo. Il crollo del socialismo reale negli Stati dell’Europa orientale non ha del tutto allontanato tali speranze, che qua e là persistono silenziose e sono alla ricerca di nuove forme. Al crollo politico ed economico non ha corrisposto nessun reale superamento culturale, e in questo senso la questione posta dal marxismo non è ancora affatto risolta. Nondimeno, che il sistema marxista non funzionasse come era stato promesso, è evidente. Che questo presunto movimento di liberazione fosse, accanto al nazionalsocialismo, il più grande sistema di schiavitù della storia contemporanea, nessuno può in realtà più negarlo: le dimensioni della cinica distruzione dell’uomo e del mondo vengono invero spesso vergognosamente taciute, ma nessuno può più contestarle.
    La superiorità morale del sistema liberale in politica e in economia, apparsa con tanta evidenza, non suscita tuttavia alcun entusiasmo. Troppo grande è il numero di coloro che non partecipano dei frutti di questa libertà, anzi, perdono completamente ogni libertà: la disoccupazione diviene nuovamente un fenomeno di massa; la sensazione dell’inutilità, della superfluità, angoscia le persone non meno della povertà materiale. Lo sfruttamento senza scrupoli si diffonde; la criminalità organizzata si avvale delle opportunità offerte dal mondo liberale, e in tutto si aggira il fantasma della mancanza di senso. Il filosofo polacco Andrej Szizypiorski, nel corso delle Settimane universitarie di Salisburgo del 1995, ha impietosamente descritto il dilemma della libertà, presentatosi dopo la caduta del muro; merita di essere ascoltato più estesamente: “Non vi è alcun dubbio che il capitalismo abbia realizzato un grande progresso. E neppure vi è alcun dubbio che esso non abbia soddisfatto le attese. Nel capitalismo si continua a udire il grido di masse immense, il cui desiderio non è stato soddisfatto [...]. Il crollo della concezione sovietica del mondo e dell’uomo nella prassi politica e sociale è stata una liberazione dalla schiavitù per milioni di vite umane. Ma nel patrimonio del pensiero europeo, alla luce della tradizione degli ultimi due secoli, la rivoluzione anticomunista significa anche la fine delle illusioni illuministiche; la distruzione, dunque, della concezione intellettuale che stava a fondamento dello sviluppo della prima Europa. È subentrata un’epoca strana, a nessuno finora nota, quella dell’uniformizzazione dello sviluppo. E d’improvviso si è reso evidente - certo per la prima volta nella storia - che vi era solo un’unica ricetta, un’unica strada, un unico modello e un’unica maniera di configurare il futuro. E gli uomini persero la fede nel senso dei mutamenti in atto. Persero anche la speranza che il mondo fosse realmente modificabile e che valesse la pena modificare il mondo [...]. L’attuale mancanza di alternative fa tuttavia porre alla gente domande del tutto nuove. La prima domanda: e se forse l’Occidente non aveva ragione? La seconda domanda: ma se l’Occidente non aveva ragione, chi aveva allora ragione? Poiché per nessuno in Europa può esserci dubbio che il comunismo non avesse ragione, sorge la terza domanda: esiste davvero una ragione? Ma se così è, tutto il patrimonio di pensiero dell’illuminismo non ha alcun valore [...]. Forse la vaporiera dell’illuminismo, andata a riposo dopo due secoli di utile lavoro, senza guasti, si è fermata davanti ai nostri occhi e con la nostra partecipazione. E il vapore soltanto sale nell’aria. Se le cose stanno effettivamente così, le prospettive sono allora oscure” [Cito dal manoscritto reperibile presso le Settimane universitarie di Salisburgo].
    Sebbene si possano qui porre anche delle controdomande, il realismo e la logica degli interrogativi di fondo di Szizypiorski non devono venir accantonati; ma, al tempo stesso, la diagnosi è così inquietante che non ci si può fermare ad essa. Non aveva ragione nessuno? Forse non esiste una ragione? I fondamenti dell’illuminismo europeo, sui quali si appoggia il nostro cammino di libertà, sono falsi o almeno carenti? La domanda: “Che cos’è la libertà?” non è in fondo meno complicata della domanda: “Che cos’è la verità?”. Il dilemma dell’illuminismo, nel quale ci siamo innegabilmente venuti a trovare, ci costringe a porre in modo nuovo entrambe le questioni e anche a cercare nuovamente il loro collegamento. Per andare avanti, dobbiamo dunque riflettere di nuovo sul punto di partenza del cammino moderno della libertà; la correzione di rotta, di cui abbiamo manifestamente bisogno affinché nell’oscuramento delle prospettive siano nuovamente visibili delle vie, deve ritornare ai medesimi punti di partenza e di lì ricominciare. Naturalmente, nel ristretto àmbito di una conferenza posso solo cercare di gettare alcuni sprazzi di luce, accennando ai valori e ai pericoli del cammino dell’epoca moderna, per aiutare così una rinnovata riflessione.

    La moderna storia della libertà

    Non vi è alcun dubbio: l’epoca che chiamiamo età moderna è determinata sin dall’inizio dal tema della libertà; la ricerca di nuove libertà è certamente l’unico motivo che giustifica una tale periodizzazione. Lo scritto polemico di Lutero, Della libertà del cristiano, dà subito inizio al tema in toni forti [Al riguardo cfr per esempio E. LOHSE, Martin Luther, München 198 1, pp. 60 s.; 86 ss.]. Fu il richiamo della libertà che rese attente le persone, che mise in moto una vera valanga e fece scaturire dagli scritti di un monaco un movimento di massa che modificò radicalmente il volto del mondo medioevale. Si trattava della libertà della coscienza nei confronti dell’autorità ecclesiastica; quindi, in assoluto, della più intima libertà dell’uomo. Non gli ordinamenti della comunità salvano l’uomo, ma la sua fede totalmente personale in Cristo. Che d’improvviso tutto il sistema dell’ordinamento della Chiesa medioevale non contasse fondamentalmente più, fu avvertito come un formidabile impulso di liberazione. Gli ordinamenti, che in verità dovevano sostenere e salvare, apparvero. come un peso; essi non sono più vincolanti, cioè non hanno più alcun significato redentivo. La redenzione è liberazione, liberazione dal giogo degli ordinamenti sovraindividuali. Anche se non si dovrebbe parlare di individualismo della Riforma, tuttavia la nuova rilevanza del singolo e lo spostamento della relazione tra la coscienza del singolo e l’autorità sono tratti salienti. Questo movimento di liberazione rimase certo limitato sul piano propriamente religioso. Laddove esso, come nella guerra dei contadini e nel movimento dei battisti, divenne anche un programma politico, Lutero vi si oppose con forza. Nell’àmbito politico, al contrario, con la creazione delle Chiese di Stato e territoriali il potere dell’autorità civile si accrebbe e rafforzò. Nel mondo anglosassone, poi, da questa nuova mescolanza di potere religioso e potere politico fuoriescono le Freechurches (libere Chiese), le quali diventano precorritrici di una nuova struttura della storia, che nella seconda fase dell’evo moderno, l’illuminismo, assume chiara configurazione.
    Comune a tutto l’illuminismo è la volontà di emancipazione, anzitutto nel senso del kantiano sapere aude: osa di fare uso tu stesso della tua ragione. Si tratta del distacco della ragione del singolo dai vincoli dell’autorità, i quali devono essere tutti criticamente esaminati. Solo ciò che è ragionevolmente comprensibile deve valere. Questo programma filosofico è per sua essenza anche un programma politico: solo la ragione deve dominare, in ultimo non deve esserci altra autorità se non quella della ragione. Solo ciò che è comprensibile ha valore; ciò che non è ragionevole, cioè comprensibile, non può neppure obbligare. Questo orientamento di fondo dell’illuminismo si riscontra tuttavia in filosofie sociali e in programmi politici diversi, anzi contrapposti. A mio parere si potrebbero distinguere due grandi correnti: il filone anglosassone più orientato secondo il diritto naturale, che tende alla democrazia costituzionale come l’unico sistema realistico di libertà; a esso si contrappone l’approccio radicale di Rousseau, che in ultimo mira all’anarchia piena. Il pensiero giusnaturalistico critica il diritto positivo, le forme concrete di autorità, a partire dal criterio di misura dei diritti innati della persona, che precedono tutti gli ordinamenti giuridici, di cui sono la misura e il fondamento.
    “L’uomo è creato libero, è libero, foss’anche nato in catene”, ha detto in questo senso Friedrich von Schiller. Non è questa una frase per consolare gli schiavi con una riflessione metafisica, ma una parola di lotta, una massima d’azione. Gli ordinamenti giuridici che creano schiavitù sono ordinamenti ingiusti. A partire dalla creazione l’uomo possiede diritti, che devono essere fatti valere perché vi sia giustizia. La libertà non viene concessa all’uomo dall’esterno. Egli ha un diritto per il fatto che è stato creato libero. Da una tale riflessione si è sviluppata l’idea dei diritti dell’uomo come Magna charta del moderno movimento della libertà. Se qui si parla di natura, essa non è dunque semplicemente intesa come un sistema di ritmi biologici. Piuttosto, viene detto che prima di ogni forma di ordinamento esistono deí diritti nell’uomo stesso, a partire dalla sua natura. L’idea dei diritti dell’uomo è, in questo senso, anzitutto un’idea rivoluzionaria: essa si pone contro l’assolutismo dello Stato, contro l’arbitrio della legislazione positiva. Ma è anche un’idea metafisica: nell’essere stesso si fonda una pretesa etica e giuridica. Non è cieca materialità, che si possa poi modificare secondo la mera convenienza. La natura reca in sé uno spirito, porta in se stessa ethos e dignità e costituisce così il diritto alla nostra liberazione e ne è insieme la misura. Questo, in fondo, è sostanzialmente il concetto di natura di Romani 2, ispirato alla Stoa e trasformato a partire dalla teologia della creazione che qui incontriamo: i pagani conoscono la legge “per natura” e sono così legge a se stessi (cfr Rm 2,14).
    La specifica caratteristica illuministico-moderna di questa linea di pensiero si potrà certamente vedere nel fatto che la pretesa di un diritto della natura è, nei confronti delle forme di autorità costituite, soprattutto rivendicazione dei diritti dell’individuo nei confronti dello Stato, nei confronti delle istituzioni. Come natura dell’uomo viene prima di tutto considerato che egli ha dei diritti di fronte alla comunità, diritti che devono essere difesi davanti alla comunità: l’istituzione appare come il polo opposto alla libertà; come portatore della libertà appare l’individuo e come scopo di essa la piena emancipazione dell’individuo.
    Da tale punto di vista questa corrente si avvicina al secondo orientamento, dall’impostazione molto più radicale: per Rousseau tutto ciò che è stato elaborato dalla ragione e dalla volontà è contro la natura, ne è la corruzione e la negazione. Il concetto di natura non è a sua volta plasmato dal concetto di diritto, che come legge di natura si troverebbe al fondamento di tutte le nostre istituzioni. Il concetto rousseauiano di natura è antimetafisico, legato al sogno della libertà totale, senza alcuna regola [Cfr D. WYSS, Zur Psychologie und Psychopathologie der Verblendung: J. J. Rousseau und M. Robespierre, die Begründer des Sozialismus, in “Jahres - und Tagungsbericht der Görres - Gesellschaft”, 1992, pp. 33-45; R. SPAEMANN, Rousseau - Bürger ohne Vaterland. Von der Polis zur Natur, München 1980]. Qualcosa di simile riemerge in Nietzsche, che contrappone l’ebbrezza dionisiaca all’ordine apollineo ed evoca così i contrasti originari della storia della religione: gli ordinamenti della ragione, simboleggiata da Apollo, corrompono la libera, illimitata ebbrezza della natura [Cfr P. KÖSTER, Der sterbende Gott. Nietzsches Entwurf übermenschlicher Grösse, Meisenheim 1972; R. LÖW, Nietzsche Sophist und Erzieher, Weinheim 1984]. Klages ha ripreso lo stesso motivo con l’idea dello spirito come avversario dell’anima: lo spirito non è il grande, nuovo dono, nel quale soltanto finalmente si darebbe libertà, ma il disgregatore dell’originario con la sua passionalità e la sua libertà [Cfr Th. STEINBÜCHEL, Die Philosophische Grundlegung der christlichen Sittenlehre, I 1, Düsseldorf 19473, pp. 118-132]. Da un certo punto di vista questa dichiarazione di guerra allo spirito è antilluministica, e in questo senso il nazionalsocialismo poteva richiamarsi a tali orientamenti nella sua ostilità verso l’illuminismo e nel suo culto di “sangue e terra”. Ma il motivo di fondo dell’illuminismo, il grido alla libertà, non solo è presente anche qui, ma è portato alla sua forma più radicale. Nei radicalismi politici del secolo passato, come di quello presente, tali tendenze rispuntano continuamente in modalità molteplici di fronte alla forma democratica addomesticata della libertà. La rivoluzione francese, iniziata con un’idea democratica costituzionale, recise rapidamente da sé questi legami e si mise sui binari di Rousseau e del concetto anarchico di libertà; proprio così essa divenne, inevitabilmente, una dittatura sanguinaria.
    Anche il marxismo continua questa linea estrema: esso ha sempre criticato la libertà democratica come libertà apparente e promesso una libertà migliore, più radicale. Il suo fascino veniva anzi proprio dal fatto che prometteva una libertà più grande, e più audace, di quella realizzata nelle democrazie. Due aspetti del sistema marxista mi sembrano essere particolarmente importanti per la problematica della libertà nell’epoca moderna e per il problema della libertà e verità:
    a) il marxismo muove dall’idea che la libertà è indivisibile; quindi, come tale, sussiste solo se è la libertà di tutti. La libertà è legata all’uguaglianza: perché vi sia libertà, deve anzitutto essere stabilita l’uguaglianza. Ciò significa che, al fine della piena libertà, sono necessarie rinunce di libertà. La solidarietà di coloro che combattono per la libertà di tutti precede la realizzazione delle libertà individuali. La citazione di Marx, dalla quale siamo partiti, mostra che in realtà alla fine l’idea della libertà illimitata dell’individuo è di nuovo presente, ma per il momento vige la superiorità dell’aspetto comunitario, la superiorità dell’uguaglianza sulla libertà e dunque il diritto della comunità rispetto all’individuo.
    b) Collegato con quanto precede è il presupposto che la libertà del singolo dipenda dalla struttura dell’insieme e che la lotta per la libertà debba essere condotta innanzitutto non come lotta per i diritti dell’individuo, ma come lotta per una struttura del mondo diversa. Di fronte alla questione di quale aspetto questa struttura debba avere, e quali siano pertanto i mezzi razionali per la sua edificazione, al marxismo è manifestamente mancato il respiro. Infatti anche un cieco poteva vedere che nessuna delle strutture costruite rendeva reale quella libertà, a motivo della quale era richiesta la rinuncia alla libertà stessa. Ma gli intellettuali sono ciechi, laddove si tratta delle creazioni del loro pensiero. Per questa ragione hanno potuto rinunciare a ogni realismo e continuare a combattere per un sistema, le cui promesse non potevano essere mantenute. Ci si aiutò con una fuga nella mitologia: la nuova struttura avrebbe creato un uomo nuovo, poiché, in realtà, solo con un uomo nuovo, con uomini totalmente diversi, le promesse avrebbero potuto trovare attuazione. Se nell’istanza della solidarietà e nell’idea dell’indivisibilità della libertà si trova la connotazione morale del marxismo, nel suo preannuncio dell’uomo nuovo si fa manifesta una menzogna che paralizza anche l’approccio morale. Verità parziali sono collegate a una menzogna, e per questo l’insieme fallisce: la menzogna sulla libertà vanifica anche gli elementi veri. La libertà senza la verità non è libertà.
    Noi siamo oggi a questo punto. Siamo giunti di nuovo esattamente alle problematiche che Szizypiorski ha formulato così drasticamente a Salisburgo. Che cos’è la menzogna, ora lo sappiamo, almeno in relazione alle forme di marxismo finora realizzate. Ma che cos’è la verità, lo ignoriamo ancora. Sì, il timore cresce: non esiste affatto una verità? Non esistono affatto la giustizia e il diritto? Ci dobbiamo accontentare di ordinamenti sempre provvisori per garantire il minimo di moralità e di convivenza pacifica? Ma anche questi ordinamenti minimi hanno davvero successo, come mostrano i recentissimi sviluppi nei Balcani e in tante altre parti del mondo? Lo scetticismo cresce e le sue ragioni si rafforzano, e tuttavia non scompare la volontà di un mondo migliore, di un mondo della perfetta libertà.
    La sensazione che la democrazia non sia ancora la forma giusta della libertà è abbastanza generale e si diffonde sempre più. La critica marxista della democrazia non può facilmente essere messa da parte: quanto libere sono le elezioni? Quanto è manipolata la volontà mediante la pubblicità, dunque tramite il capitale, tramite alcuni padroni dell’opinione pubblica? Non esiste forse la nuova oligarchia di coloro che determinano che cosa è moderno e progressista, che cosa deve pensare una persona illuminata? La crudeltà di questa oligarchia, la sua possibilità di condanne pubbliche, è da tempo conosciuta. Chi volesse opporsi è un nemico della libertà, perché egli impedisce la libera espressione del pensiero. E che cosa dire della formazione del consenso negli organi di rappresentanza democratica? Chi potrebbe ancora credere che il bene comune sia ivi l’elemento davvero determinante? Chi potrebbe dubitare del potere di interessi, le cui mani sporche divengono visibili sempre più di frequente? E più in generale: il sistema della maggioranza e minoranza è veramente un sistema di libertà? E associazioni di interessi di ogni tipo non stanno diventando decisamente più forti della rappresentanza propriamente politica, del Parlamento? In questo groviglio di poteri cresce in modo sempre più minaccioso il problema dell’ingovernabilità: la volontà di affermazione dei diritti dei gruppi opposti blocca la libertà dell’insieme.
    C’è senza dubbio la tentazione di soluzioni autoritarie, la fuga davanti alla libertà non padroneggiata. Ma questo atteggiamento non è ancora determinante per lo spirito del secolo. La corrente radicale dell’illuminismo non ha perduto la sua efficacia, diviene anzi più forte. Proprio di fronte ai limiti della democrazia diventa più forte il grido verso una totale libertà. E, comunque, nella mentalità dominante “legge e ordine” hanno sempre decisamente il significato di opposizione alla libertà. Istituzione, tradizione, autorità appaiono in sé come il polo opposto alla libertà. La nota anarchica del desiderio di libertà si fa più forte, perché le forme vigenti della libertà comunitaria non soddisfanno. Le grandi promesse dell’inizio dell’epoca moderna non sono state mantenute, ma il loro fascino è inalterato. La vigente forma democratica della libertà non può più oggi essere difesa semplicemente con questa o quella riforma legislativa. La questione tocca i fondamenti stessi. Si tratta di che cosa è l’uomo e di come egli, in quanto singolo e nel suo insieme, possa vivere giustamente.
    Come si vede, il problema politico, filosofico e religioso della libertà è diventato un tutto inscindibile; chi cerca vie per il futuro, deve tenere in considerazione l’insieme e non può accontentarsi di pragmatismi superficiali. Prima di tentare nell’ultima parte di indicare alcune linee per un cammino che sembra per me aprirsi, vorrei ancora gettare uno sguardo sulla filosofia della libertà forse più radicale del nostro secolo, quella di Jean Paul Sartre, nella quale il problema appare in tutta la sua serietà e in tutta la sua gravità. Sartre percepisce la libertà dell’uomo come la sua condanna. A differenza dell’animale, l’uomo non ha nessuna “natura”. L’animale vive la sua esistenza secondo una norma in lui innata; non ha bisogno di riflettere su che cosa deve fare della sua vita. Ma l’essere uomo è indeterminato. È un problema aperto. Io stesso devo decidere che cosa voglio intendere con essere uomo, che cosa farne, come configurarlo. L’uomo non ha alcuna natura, ma è solo libertà. Deve vivere la vita da qualche parte, ma comunque essa finisce nel vuoto. Questa libertà senza un significato è l’inferno dell’uomo. Ciò che allarma in questa impostazione di pensiero è che qui la separazione di libertà e verità è portata alle estreme conseguenze: non esiste nessuna verità. La libertà non ha nessuna direzione e nessun criterio [Cfr J. PIEPER, Kreatürlichkeit und menschliche Natur. Anmerkungen zum philosophischen Ansatz von J. P. Sartre, in ID., “Über die Schwierigkeit, heute zu glauben”, München 1974, pp. 304-321]. Ma questa totale assenza di verità - la totale assenza di ogni legame anche morale e metafisico, la libertà assolutamente anarchica come determinazione essenziale dell’essere umano - si svela, per colui che cerca di viverla, non come l’esaltazione suprema dell’esistenza, ma come la vanificazione della vita, come il vuoto assoluto, come la definizione della condanna. Nell’estrapolazione di un radicale concetto di libertà, che per Sartre stesso fu esperienza di vita, diviene visibile che la liberazione dalla verità non produce la pura libertà, ma la toglie. La libertà anarchica, assunta in modo radicale, non redime l’uomo, ma ne fa una creatura fallita, un essere senza senso.

    L’essenza della libertà

    Dopo questo tentativo di comprendere l’origine dei nostri problemi e di prendere così conoscenza del loro interno legame, è tempo di cercare delle risposte. È diventato evidente che la crisi della storia della libertà, nella quale oggi ci troviamo, è motivata da un concetto di libertà non chiarito e unilaterale. Da una parte si è isolato il concetto di libertà falsificandolo: la libertà è un bene, ma lo è solo in unione con altri beni, con i quali costituisce una totalità inscindibile. Dall’altra si è ristretto il concetto di libertà ai diritti individuali di libertà e lo si è così privato della sua verità umana. Vorrei chiarire il problema di questa comprensione della libertà con un esempio concreto, che al tempo stesso ci può aprire la strada a una concezione adeguata della libertà. Penso alla questione dell’aborto. Nella radicalizzazione della tendenza individualistica dell’illuminismo l’aborto appare come un diritto di libertà: la donna deve poter disporre di se stessa. Essa deve avere la libertà, sia che voglia mettere al mondo un bambino sia che voglia disfarsene. Deve poter decidere di se stessa, e nessun altro può imporle dall’esterno - così ci viene detto - una norma ultimamente vincolante. Ne va del diritto di autodeterminazione. Ma veramente la donna, nell’aborto, decide di se stessa? Non decide essa in realtà di qualcun altro, del fatto che ad altri non debba essere concessa nessuna libertà, che a lui lo spazio della libertà - la vita - debba essere tolto, perché entra in concorrenza con la mia propria libertà? E quindi è da chiedersi: che cosa è veramente questa libertà, ai cui diritti compete di eliminare subito fin dall’inizio la libertà di un altro?
    Non si dica che la questione dell’aborto tocca uno specifico caso particolare e non serve per chiarire il problema generale della libertà. No, proprio in questo esempio è chiarita la figura fondamentale della libertà umana, la sua essenza tipicamente umana. Infatti, di che cosa si tratta? L’essere di un altro uomo è così strettamente intessuto con l’essere di questa persona, la madre, che per il momento può sussistere assolutamente solo nella correlazione corporea con la madre, in un’unità fisica con essa, che tuttavia non elimina il suo essere altro e non permette di mettere in discussione il suo essere se stesso. Certamente, questo essere se stesso è in modo radicale un essere dall’altro, mediante l’altro; viceversa, l’essere dell’altro - della madre - viene sospinto da questa correlazione verso un “essere per”, che contraddice al proprio volere se stessi e viene così sperimentato come opposizione alla propria libertà. Dobbiamo ora aggiungere che il bambino, anche se viene partorito e cambia la forma esterna dell’”essere da” e dell’”essere con”, nondimeno resta altrettanto dipendente, altrettanto legato a un “essere per”. Certo, lo si può ora inviare in un asilo e metterlo in relazione con un altro “per”, ma la figura antropologica è la stessa, rimane quella della dipendenza, che esige un “per”, un’accettazione dei limiti della mia libertà, o piuttosto un vivere la mia libertà non in prospettiva di concorrenza, ma di reciproco sostegno. Se apriamo gli occhi, vediamo che a sua volta questo non vale solo per il bambino, che piuttosto nel bambino entro il seno materno l’essenza dell’esistenza umana nel suo insieme si dà semplicemente a conoscere in modo ben visibile: vale anche per l’adulto, che può essere solo insieme con l’altro e a partire da lui, talché egli è sempre dipendente da quell’”essere per” che intendeva proprio escludere. Diciamolo in modo ancora più preciso: in realtà l’uomo presuppone come del tutto ovvio l’”essere per” degli altri, così come oggi si è venuto configurando nella rete del sistema dei servizi; ma, da parte sua, desidererebbe non essere coinvolto nei vincoli di un tale “da” e “per”, bensì divenire del tutto indipendente, potendo fare o non fare ciò che egli semplicemente vuole. Il desiderio di libertà radicale, che si è manifestato sempre più chiaramente nel cammino dell’illuminismo, soprattutto nella linea aperta da Rousseau, e che determina oggi largamente la coscienza comune, aspirerebbe a essere né “da” né “verso”, né “di” né “per”, ma del tutto libero. Ciò significa: esso considera la stessa figura reale fondamentale dell’esistenza umana come attentato alla libertà soggiacente a ogni singola vita e azione; vorrebbe essere liberato proprio dalla sua specifica essenza umana per divenire l’”uomo nuovo”: nella nuova società queste condizioni che limitano l’io e questo “dover donare se stessi” potrebbero non esistere più.
    In fondo, dietro il radicale desiderio di libertà dell’evo moderno sta ben chiaramente la promessa: diventerete come Dio. Anche se Ernst Topitsch credeva di poter affermare che oggi nessun uomo ragionevole voglia più essere simile a Dio o come Dio, nondimeno a un più attento esame si deve affermare esattamente il contrario: il fine implicito di tutti i movimenti di liberazione moderni è di essere finalmente come un Dio, non dipendenti da nulla e da nessuno, non limitati nella propria libertà da alcuna libertà estranea. Se si considera una volta per tutte questo nascosto nucleo teologico della volontà radicale di libertà, allora diviene anche visibile l’errore fondamentale, che si ripercuote pure là dove tali radicalismi non sono direttamente voluti, anzi sono respinti. Essere totalmente liberi, senza la concorrenza di altre libertà, senza un “da” e un “per”: si nasconde qui non un’immagine di Dio, ma di un idolo.
    L’errore originario di tali radicalizzate volontà di libertà sta nell’idea di una divinità concepita in modo puramente egoistico. Il Dio cosi inteso non è un Dio, ma un idolo, anzi l’immagine di colui che la tradizione cristiana chiamerebbe il diavolo - l’antidio -, poiché in esso si rinviene proprio l’opposto radicale del vero Dio: il vero Dio è per sua essenza totalmente “essere per” (Padre), “essere da” (Figlio) ed “essere con” (Spirito Santo). L’essere umano, tuttavia, è immagine di Dio proprio per il fatto che il “da”, il “con” e il “per” costituiscono la figura antropologica fondamentale. Laddove si cerca di liberarsene, non ci si avvicina alla divinità, ma alla disumanizzazione, alla distruzione dell’essere attraverso la distruzione della verità. La variante giacobina dell’idea di liberazione (chiamiamo una buona volta così i radicalismi moderni) è ribellione contro lo stesso essere uomini, ribellione contro la verità, e pertanto conduce l’uomo - come Sartre acutamente ha visto - a un’esistenza di autocontraddizione che chiamiamo inferno.
    In questo modo è emerso molto chiaramente che la libertà è legata a un criterio, al criterio della realtà, alla verità. Libertà di autodistruzione o di distruzione dell’altro non è libertà, ma la sua diabolica parodia. La libertà dell’uomo è libertà condivisa, libertà nell’essere insieme di libertà che si limitano reciprocamente e in tal modo si sostengono l’un l’altra: la libertà deve commisurarsi a quello che io sono, a quello che noi siamo, altrimenti si sopprime da se medesima. Ma con ciò arriviamo ora a una correzione essenziale del superficiale concetto di libertà oggi largamente dominante: se la libertà dell’essere umano può consistere solo nell’ordinato essere insieme di libertà, allora ciò significa che ordine, diritto, non sono concetti opposti alla libertà, ma la sua condizione; anzi, un elemento costitutivo della libertà stessa. Il diritto non è una limitazione della libertà, ma la costituisce. L’assenza di diritto è assenza di libertà.

    Libertà & responsabilità

    Certamente con questa affermazione nasce subito anche una nuova domanda: che cosa è un diritto conforme a libertà? Come dev’essere strutturato un diritto, perché esso costituisca un diritto di libertà? Esiste infatti senz’altro un diritto apparente che costituisce un diritto da schiavi e pertanto non è un diritto, ma una forma regolamentata di ingiustizia. La nostra critica non può essere rivolta contro il diritto stesso, che appartiene all’essenza della libertà; essa deve smascherare come tale l’apparente diritto e mettersi al servizio dell’affermazione del vero diritto, di quel diritto che è secondo la verità e pertanto secondo la libertà.
    Ma come lo si trova? È questa la grande questione, la questione finalmente posta in modo giusto della vera storia della liberazione. Procediamo anche qui, come già prima, non con astratte considerazioni filosofiche, ma cercando di avvicinarci progressivamente a una risposta a partire dalle presenti realtà della storia. Se cominciamo da una piccola comunità ben delimitata, è facilmente possibile scandagliare in una qualche misura - a partire dalle sue possibilità e limiti - quale ordine favorisca meglio la convivenza di tutti, così che dal loro essere insieme nasca una figura comune di libertà. Ma nessuna piccola comunità è isolata in se medesima; essa è inclusa e nella sua specifica essenza condeterminata dalle istituzioni più grandi, alle quali appartiene. Nell’epoca degli Stati nazionali si muoveva dal presupposto che la propria nazione fosse l’unità di misura, che il suo bene comune costituisse anche il criterio giusto della libertà comune. Lo sviluppo del nostro secolo ha chiarito che questo punto di vista non è sufficiente. Agostino aveva detto al riguardo che uno Stato, il quale si riferisse solo agli interessi comuni propri e non alla giustizia in sé, alla vera giustizia, non sarebbe strutturalmente differente da una ben ordinata banda di predoni. Peculiare caratteristica di essa è infatti quella di assumere come criterio il bene della banda indipendentemente dal bene degli altri. Guardando indietro all’epoca coloniale e ai danni che essa ha lasciato nel mondo, vediamo oggi che Stati molto ben organizzati e civilizzati si avvicinavano in qualche modo all’essenza della banda di predoni, poiché essi pensavano muovendo solo dal proprio bene e non dal bene in sé. Una libertà così garantita ha dunque in sé qualcosa della libertà dei predoni. Non è la vera, autentica libertà umana. Nella ricerca del criterio giusto tutta quanta l’umanità deve stare davanti agli occhi e - come vediamo sempre più chiaramente - una volta ancora non solo l’umanità di oggi, ma anche quella di domani.
    Il criterio per il vero diritto, che possa definirsi autenticamente come diritto e quindi come diritto di libertà, può essere pertanto solo il bene del tutto, il bene in sé. A partire da questa intuizione Hans Jonas ha proposto il concetto di responsabilità come concetto etico centrale [H. JONAS, Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt a.M. 1979; tr. it. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino 1993]. Ciò significa che, per essere intesa correttamente, la libertà deve sempre essere pensata insieme con la responsabilità. La storia della liberazione può quindi darsi sempre e soltanto come storia di una crescente responsabilità. La crescita della libertà non può più consistere semplicemente nel sempre maggiore ampliamento dei diritti individuali, ciò che conduce all’assurdo e alla distruzione anche delle stesse libertà individuali. Crescita della libertà deve essere crescita della responsabilità. Vi appartiene anche l’accettazione dei legami sempre più grandi richiesti dalle esigenze di coesistenza dell’umanità, dalla necessità di adeguarsi a quanto è essenziale dell’uomo. Se responsabilità è rispondere alla verità dell’essere uomo, possiamo allora dire: appartiene alla vera storia della liberazione la continua purificazione verso la verità. Nella purificazione del singolo e delle istituzioni per mezzo di questa verità consiste la vera storia della libertà.
    Il principio responsabilità costituisce una cornice che ha bisogno di essere riempita di contenuti. È in questo contesto che va considerata la proposta dell’elaborazione di un ethos mondiale, per il quale si è impegnato con passione anzitutto Hans Küng. Indubbiamente ha senso, anzi, nella nostra attuale situazione è necessario cercare gli elementi di fondo delle tradizioni etiche nelle diverse religioni e culture; in questo senso una tale impresa è certamente importante e opportuna. Per altro verso i limiti di un tentativo siffatto sono evidenti, e su di essi ha richiamato l’attenzione per esempio Joachim Fest in un’analisi certamente benevola, ma anche molto pessimistica, la quale si avvicina nell’orientamento allo scetticismo di Szizypiorski [J. FEST, Die schwierige Freiheit, Berlin 1993, soprattutto pp. 47-81; l’autore, riassumendo, così commenta l’”ethos mondiale” di Küng: “Quanto più si spingono avanti le concordanze non raggiungibili senza concessioni, tanto più elastiche e di conseguenza impotenti devono necessariamente divenire anche le norme etiche, fino a che il progetto non sfoci in mera convalida di quella moralità che non impegna e che non costituisce propriamente il fine, bensì il problema” (p. 80)]. A un tale minimo etico distillato dalle diverse religioni manca innanzitutto il carattere vincolante, l’autorità interna, di cui l’ethos ha bisogno. Gli manca anche l’evidenza razionale sufficiente, che secondo il parere degli autori ben potrebbe e dovrebbe sostituire l’autorità; gli manca inoltre la concretezza, che solo rende l’ethos efficace.
    Un’idea mi sembra giusta, certamente presente in questo tentativo: la ragione deve mettersi in ascolto delle grandi tradizioni religiose, se non vuole divenire sorda, muta e cieca proprio in riferimento all’essenziale dell’esistenza umana. Non esiste nessuna grande filosofia che non viva dell’ascolto e dell’accoglienza di una tradizione religiosa. Laddove questa relazione viene interrotta, il pensiero filosofico si inaridisce e diventa un vuoto gioco di concetti [Vi insiste J. PIEPER, Schriften zum Philosophiebegriff, Opere, vol. 3 (a cura di B. WALD), Hamburg 1995, pp. 300-323 nonché pp. 15-70; in particolare, pp. 59 ss.].
    Proprio sul tema della responsabilità, cioè sulla questione dell’ancoraggio della libertà nella verità del bene, nella verità dell’uomo e del mondo, si rivela molto chiaramente la necessità di un simile ascolto. Infatti, per quanto sia valido nella sua impostazione il principio responsabilità, resta tuttavia la domanda: come dobbiamo individuare ciò che è buono per tutti e ciò che è buono non solo per oggi, ma anche per domani? Un duplice pericolo è qui in agguato: da una parte vi è il rischio di uno scivolamento nel consequenzialismo, che giustamente il Papa critica nella sua Enciclica sulla morale [Enc. Veritatis splendor, nn. 71-83]. L’uomo sopravvaluta altamente le sue forze quando ritiene di poter considerare tutte le conseguenze della propria azione e di poterle assumere come norma della sua libertà. Ben presto allora il presente viene sacrificato al futuro, ma nemmeno il futuro viene edificato.
    Per altro verso insorge la questione: chi decide allora che cosa la nostra responsabilità impone? Laddove la verità non è più ravvisata in un intelligente appropriarsi delle grandi tradizioni della fede, essa viene sostituita dal consenso. Ma di nuovo c’è da domandarsi: il consenso di chi? Si dice allora: il consenso di coloro che sono capaci di argomentare. E poiché non può sfuggire la pretenziosità elitaria di una simile dittatura intellettuale, si dice che coloro i quali sono capaci di argomentare dovrebbero farsi garanti anche per quelli che sarebbero inidonei all’argomentazione razionale. Tutto questo ha ben poca capacità di suscitare fiducia. Quanto fragili siano i consensi e quanto rapidamente, in un certo clima intellettuale, gruppi partitici possano imporsi come gli unici rappresentanti autorizzati del progresso e della responsabilità è davanti agli occhi di noi tutti. Con troppa facilità si rischia qui di cacciare il diavolo con Beelzebub; con troppa facilità, invece del demonio delle passate costellazioni culturali, sette nuovi e peggiori demoni possono occupare la nostra casa.

    La verità del nostro essere uomini

    La questione di come responsabilità e libertà siano da porre nella giusta relazione non può essere decisa semplicemente mediante un calcolo degli effetti. Dobbiamo tornare all’idea precedente, secondo cui la libertà umana è una libertà nella coesistenza delle libertà; solo così essa è autentica, cioè conforme alla reale condizione dell’uomo. Ciò significa: io non ho affatto bisogno di muovere dall’esterno per cercare elementi di correzione alla libertà del singolo; in tal caso libertà e responsabilità, libertà e verità rimarrebbero sempre contrapposte, mentre in realtà non lo sono. La realtà del singolo rettamente intesa reca in se medesima il rinvio al tutto, all’altro. Diremo pertanto: in ogni uomo esiste la verità comune dell’unica essenza umana, che la tradizione designò come “natura” dell’uomo. Muovendo dalla fede nella creazione possiamo formulare questa realtà ancora più chiaramente: esiste l’unica creatura uomo così come concepita da Dio, e il nostro compito è quello di corrispondervi. In lui libertà e spirito comunitario, ordine e orientamento al futuro costituiscono una cosa sola.
    Responsabilità significherebbe allora: vivere l’essere come risposta, come risposta a ciò che siamo in verità. Quest’unica verità dell’uomo, nella quale il bene di tutti e la libertà sono inscindibilmente ordinati l’uno all’altra, è espressa nella tradizione biblica, fondamentalmente nel Decalogo, il quale, d’altronde, sotto molteplici aspetti coincide con le grandi tradizioni etiche delle altre religioni. Il Decalogo è nel medesimo tempo autopresentazione, autorappresentazione di Dio e spiegazione dell’essere umano, manifestazione della sua verità, che diviene visibile nello specchio dell’essenza divina, poiché solo a partire da Dio l’uomo può essere compreso rettamente. Vivere il Decalogo significa vivere la propria somiglianza con Dio, rispondere alla verità del nostro essere e fare così il bene. Detto in altro modo ancora: vivere il Decalogo significa vivere la dimensione divina dell’uomo. E questo appunto è libertà: una fusione del nostro essere con l’essere divino e l’armonia che ne consegue di tutti con tutti [Cfr Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 2052-2082].
    Perché questa affermazione sia intesa rettamente occorre aggiungere ancora un’osservazione. Ogni grande parola umana conduce oltre ciò che nell’immediatezza viene detto coscientemente, a una più grande profondità; in quanto si dice è nascosto sempre un di più di non detto, che con il passare del tempo rende più dense di senso le parole. Se ciò vale per la parola umana, a maggior ragione vale per la parola che viene dalle profondità divine. Il Decalogo non è mai semplicemente compreso fino in fondo. Nelle situazioni di responsabilità storica che si susseguono e mutano esso si presenta in prospettive sempre diverse, si dischiudono dimensioni sempre nuove del suo significato. Si verifica quel venire introdotti nella verità tutta intera, in una verità il cui peso non potrebbe assolutamente essere portato in un solo momento della storia (cfr Gv 16, 12 s.). Per i cristiani significa quella spiegazione realizzatasi nelle parole, nella vita, nella passione e nella risurrezione di Cristo, l’istanza interpretativa decisiva, nella quale si dischiude una profondità prima imprevedibile.
    Proprio perché questa è la verità delle cose, l’umano ascolto del messaggio della fede non è un’accettazione passiva di informazioni peraltro sconosciute, ma il risveglio della nostra memoria sepolta e il dischiudersi delle forze della comprensione, che attendono in noi la luce della verità. Tale comprensione è così un processo estremamente attivo, nel quale soltanto tutta la ricerca razionale dei criteri della nostra responsabilità trova davvero la sua solidità. La ricerca razionale non viene soffocata, bensì liberata dal circolo senza esito all’interno di quanto non si riesce a comprendere e ricondotta sulla via. Se il Decalogo approfondito nella comprensione razionale è la risposta alle esigenze interiori della nostra natura, allora esso non è il polo che si oppone alla nostra libertà, ma la sua forma concreta. Allora esso è il fondamento per ogni diritto di libertà e la forza veramente liberante della storia umana.

    Sintesi dei risultati

    “Forse la vaporiera dell’illuminismo, andata a riposo dopo due secoli di utile lavoro, senza guasti, si è fermata davanti ai nostri occhi e con la nostra partecipazione. E il vapore soltanto sale nell’aria”: è questa la pessimistica diagnosi di Szizypiorski, incontrata all’inizio come provocazione per la riflessione. Orbene, io direi: senza guasti il lavoro di questa macchina non è stato mai; pensiamo solo alle due guerre mondiali del nostro secolo e alle dittature che abbiamo sperimentato. Ma vorrei aggiungere: non abbiamo affatto bisogno di prendere congedo dalla eredità dell’illuminismo come tale e nel suo insieme, di parlare di vaporiera andata a riposo. Ciò di cui abbiamo certamente bisogno è di una correzione di percorso in tre punti essenziali, nei quali vorrei riassumere i risultati delle mie riflessioni.
    1. Una concezione della libertà, che voglia considerare come liberazione soltanto la dissoluzione sempre più ampia delle norme e l’ampliamento continuo delle libertà individuali fino alla totale liberazione da ogni ordinamento, è falsa. La libertà, se non intende portare alla menzogna e all’autodistruzione, deve orientarsi alla verità, ossia a ciò che veramente noi siamo e corrispondere a questo nostro essere. Poiché l’uomo è un’essenza nell’”essere da”, nell’”essere con” e nell’”essere per”, la libertà umana può consistere solo nell’ordinata concordia delle libertà. Il diritto non è pertanto il contrario delle libertà, ma la sua condizione, ne è anzi costitutivo. La liberazione non consiste nella progressiva abolizione del diritto e delle norme, ma nella purificazione di noi stessi e nella purificazione delle norme, così che esse rendano possibile la convivenza umana delle libertà.
    2. Dalla verità della nostra essenza consegue un ulteriore elemento: in questa nostra storia umana non vi sarà mai la situazione assolutamente ideale, né mai verrà eretto un ordinamento di libertà definitivo. L’essere umano è sempre in cammino e sempre limitato. Davanti alla manifesta ingiustizia della società socialista e a tutti i problemi dell’ordine liberale Szizypiorski aveva posto il dubbioso interrogativo: esiste effettivamente un diritto? A questo proposito dobbiamo dire: in verità, l’ordine assolutamente ideale delle cose, il diritto perfetto, non esisteranno mai [Cfr la Costituzione conciliare Gaudium et spes, n. 78: “... la pace non è stata mai stabilmente raggiunta”]. Laddove è avanzata tale pretesa, non si dice la verità. La fede nel progresso non è totalmente falsa. Falso è però il mito del futuro mondo liberato, nel quale tutto sarà diverso e tutto sarà buono. Noi possiamo erigere sempre e solo ordinamenti relativi; solo relativamente essi possono avere ragione ed essere giusti. Ma dobbiamo impegnarci proprio in questo avvicinamento, il più adeguato possibile, al diritto autentico. Tutto il resto, ogni escatologia intrastorica, non libera, ma inganna e dunque asservisce. Occorre perciò smitizzare anche il fulgore mitico che si è attribuito a concetti come cambiamento e rivoluzione. Il cambiamento non è un bene in sé. Se è buono o cattivo dipende dai suoi contenuti concreti e dai punti di riferimento. L’idea che nella lotta per la libertà il compito essenziale sia il cambiamento del mondo è, ripeto, un mito. Nella storia ci saranno sempre un progredire e un retrocedere. In rapporto all’autentica natura morale dell’uomo essa non si svolge linearmente, ma con ripetizioni. Nostro compito è lottare di volta in volta nel presente per quella strutturazione relativamente migliore della convivenza umana e custodire il bene così raggiunto, vincere il male esistente e difendersi dall’assalto delle potenze distruttive.
    3. Dobbiamo anche prendere congedo dal sogno dell’assoluta autonomia della ragione e della sua autosufficienza. La ragione umana ha bisogno del sostegno delle grandi tradizioni religiose dell’umanità. Essa certamente esaminerà in modo critico le singole tradizioni religiose. La patologia della religione è la malattia più pericolosa dello spirito umano. Essa si dà nelle religioni, ma esiste propriamente anche là dove la religione è respinta come tale e viene attribuito un ruolo assoluto a beni relativi: i sistemi ateistici dell’epoca moderna sono gli esempi più spaventosi di una passione religiosa alienata dalla sua essenza, il che significa comunque una malattia mortale dello spirito umano. Laddove Dio è negato, non si costruisce la libertà, ma le viene sottratto il suo fondamento e pertanto essa risulta stravolta [“Nessuno degli appelli che concernono l’uomo sa dire come egli possa vivere senza aldilà e senza timore dell’ultimo giorno, e tuttavia riesca di volta in volta ad agire contro i propri interessi e i propri desideri” (J. FEST, loc. cit., p. 79). Cfr anche L. KOLAKOWSKI, Falls es keinen Gott gibt, München 1982]. Laddove le più pure e profonde tradizioni religiose vengono totalmente abbandonate, l’uomo si separa dalla sua verità, vive contro di essa e perde la libertà. Anche l’etica filosofica non può essere semplicemente autonoma. Essa non può rinunciare all’idea di Dio così come non può rinunciare all’idea di una verità dell’essere, che ha carattere etico [Cfr J. PIEPER, loc. cit.; v. nota 10]. Se non c’è nessuna verità dell’uomo, egli non ha neppure nessuna libertà. Solo la verità rende liberi.