29 agosto 2009

Due testimoni della storicità dei Vangeli


Si può confermare la credibilità storica dei Vangeli. E affermare la loro composizione anteriore all’anno 70. Le prove in alcuni romanzi antichi
di Ilaria Ramelli
Petronio era consigliere di stile di Nerone; cadde in disgrazia nel 65 e fu costretto al suicidio, come vari Stoici perseguitati dal tiranno, le cui morti esemplari Petronio parodiò con la propria. Era infatti maestro di parodia, di cui riempì il Satyricon, scritto in quel 64 che vide la prima persecuzione: Nerone fece ricadere la colpa dell’incendio di Roma sui Cristiani, già invisi al popolino per i loro presunti crimini, infanticidio e incesto, derivati dal fraintendimento dell’eucaristia e dell’usanza cristiana di chiamarsi «fratelli». I Cristiani, già numerosi a Roma, furono uccisi in modo spettacolare, destando commiserazione anche tra i pagani, secondo Tacito. Petronio allora affiancava Nerone e stava scrivendo il suo romanzo, il Satyricon, in cui allude chiaramente all’incendio. E sembra alludere anche ad episodi evangelici e ai Cristiani, che non poteva non conoscere.
1) L’unzione di Betania sembra parodiata ove il parvenu Trimalcione, in un contesto conviviale, prende del nardo e ne cosparge i convitati in prefigurazione del suo uso funebre sul suo corpo alla sepoltura. Similmente, Gesù ci dice che la donna che lo ha cosparso di nardo ha preparato il suo corpo alla sepoltura. I due passi sono gli unici in tutta l’antichità in cui il nardo è usato in un contesto conviviale in prefigurazione del suo uso funebre. Inoltre, Trimalcione per una predizione è convinto di avere ancora molti anni da vivere: perché insiste sulla sua morte come imminente? Con un riferimento al Vangelo si spiegherebbe.
2) Il canto del gallo che denuncia il tradimento di Pietro e annunzia il giorno della morte di Gesù sembra parodiato nella scena in cui il canto di un gallo, nel mondo classico sempre considerato segno positivo, è invece ritenuto annuncio di una sciagura mortale – unico caso in tutta la letteratura classica insieme al Vangelo – e il gallo è detto index, denunciatore.
3) L’Eucaristia è parodiata ove il protagonista si finge possessore di un bene prezioso che lascerà a quanti taglieranno il suo corpo in parti e ne mangeranno al cospetto di tutti. Analogamente, i Cristiani sin dalle origini mangiavano con l’Eucaristia il corpo di Cristo frazionando il pane in parti al cospetto della comunità, per entrare in possesso dell’eredità più preziosa, la vita eterna donata da Cristo.
4) La crocifissione e la resurrezione sembrano parodiate ove tre uomini sono crocifissi da un governatore di provincia e i loro cadaveri, come quello di Gesù, sono custoditi dai soldati perché nessuno li trafughi. Ma il terzo giorno uno è portato via e sostituito con un altro, al che Petronio deride i creduloni ammirati davanti all’improvvisa rianimazione di un defunto.
Le vicinanze con i Vangeli sono impressionanti. Il romanzo contiene anche una chiara parodia del Giudizio di Salomone, e il nome di Trimalcione, durante la cui cena avvengono tre degli episodi descritti, è semitico: «tre volte re», «re per eccellenza».
Anche lo scrittore greco Caritone di Afrodisia sembra avere scritto il suo Romanzo di Calliroe poco dopo la metà del I sec.: l’ultimo suo editore, B. Reardon, come C. Thiede, data il romanzo non dopo il 62, quando lo stoico Persio lo cita alla fine della sua satira I: «Dopo pranzo ti do la Calliroe».
Afrodisia, in Caria, era vicina a zone di antica evangelizzazione, il che rende possibile una conoscenza del cristianesimo, che alcune scene del romanzo sembrano presupporre.
Colpiscono quelle della crocifissione di Cherea e della morte apparente di Calliroe. Cherea è condannato da un governatore, porta la sua croce, non si ribella né accusa nessuno, e dalla croce è poi invitato a discendere con l’identica forma verbale greca usata anche per Gesù. Il terzo giorno dalla presunta morte della giovane protagonista Calliroe, Cherea giunge alla tomba all’alba, con libagioni, ma trova le pietre rotolate via dall’ingresso e prova smarrimento (aporia), lo stesso termine usato da Luca per le pie donne al sepolcro, come pure l’incredulità di fronte al fatto paradossale è anche nei Vangeli. La Fama, come nunzio (aggelos), vola a dare notizia; tutti accorrono ma Cherea non osa entrare prima del padre di Calliroe, come Giovanni, che nel Vangelo non entra nel sepolcro prima di Pietro; la tomba è incredibilmente vuota e, mentre alcuni parlano di trafugamento, Cherea proclama la divinizzazione e assunzione in cielo della fanciulla. Inoltre, il riconoscimento finale di Calliroe, tornata in vita, avviene grazie alla voce, come quello di Gesù da parte della Maddalena.
Altre affinità di pensiero con il cristianesimo sono interessanti: il valore della castità, della vita, la dignità degli schiavi, etc.
Petronio e Caritone alludono anche al trafugamento di cadavere, di cui erano accusati i Cristiani nei primi decenni, come attesta Mt 28. A questa accusa sembra connesso l’Editto di Nazareth, in cui l’imperatore (Nerone) commina la morte ai profanatori di tombe, una colpa usualmente punita solo con una multa: l’editto è probabilmente rivolto contro i Cristiani, tanto più se si intende che i trasgressori sarebbero stati sottoposti «ad un processo relativo alla religione per un culto reso a un essere umano»: ciò si adatta al cristianesimo, che dal 35 era fuori legge per un senatoconsulto sotto Tiberio, che tuttavia aveva posto il veto alle accuse anticristiane, impedendo una persecuzione che scoppiò solo nel 64 per volere di Nerone e di cui Petronio era al corrente. Il Vangelo di Marco sarebbe così databile a prima del 64, come sostiene l’antica tradizione del II sec. e come suffraga 7Q5, il probabile frammento marciano che si può collocare prima del 70 su base archeologica e agli anni 50 su base paleografica. Infatti, l’Editto sembra indicare la volontà di Nerone, con la «svolta» del 62, di colpire i Cristiani, sia in quanto adoratori di un uomo, sia in quanto presunti trafugatori di cadavere, secondo l’accusa fatta circolare dai Giudei e probabilmente riflessa in entrambi i romanzi di Petronio e di Caritone; ora, il primo è certamente databile a prima del 65, e il secondo molto probabilmente circolava in età neroniana (54-68 d.C.)
I riferimenti ai Vangeli e ai Cristiani in autori dei primi anni Sessanta del I sec., o anteriormente per Caritone, contribuiscono a sostenere la datazione alta dei Vangeli: la loro stesura avvenne dunque mentre erano vivi i testimoni oculari degli eventi della vita di Gesù, che avrebbero potuto smentire eventuali falsificazioni.
I romanzi antichi, pur composti anche da autori che, come Petronio, sembrano deridere i Cristiani, parrebbero suffragare la storicità dei Vangeli.


Bibliografia
Ilaria Ramelli, Petronio e i Cristiani, «Aevum», 70 (1996) pp. 75-80.
Eadem, I romanzi antichi e il Cristianesimo, Madrid, 2001.
Eadem, The Ancient Novels and the New Testament, «Ancient Narrative», 5 (2005).
Eadem, Indizi della conoscenza del NT nei romanzieri antichi, in Il Contributo delle scienze storiche all’interpretazione del NT (Pontificio Comitato di Scienze Storiche, 2-6.10.2002), a cura di Enrico dal Covolo – Roberto Fusco, Città del Vaticano, 2005, 146-169.

26 agosto 2009

Vangeli: al centro la storia di Marta Sordi

I Vangeli sono testimonianze fondate storicamente. Luca si rifà apertamente alla storiografia scientifica greca. Ma tutto il Nuovo Testamento ha valenza storica. Lo prova l’utilizzo che fa del concetto di martirio.

La storia deriva, come concetto e come metodo, dall’esperienza e dalla civiltà dei Greci: historia significa, in greco, l’indagine tesa all’accertamento del fatto e la storia è, per i Greci, storia difatti (tà pragmata).

Erodoto distingue le notizie che conosce per esperienza diretta (autopsia) da quelle che conosce per il racconto di testimoni o per sentito dire; Tucidide va oltre ed insiste sulla critica (akribeia) a cui ogni testimonianza va sottoposta, perché "gli stessi fatti sono narrati in modo diverso da testimoni diversi" e lo storico deve prendere coscienza della deformazione che avviene per eunoia o per mneme, per la tendenziosità del testimone o per la sua memoria.

Già la terminologia usata dai Greci rivela lo stretto collegamento che la ricerca storica ha con l’indagine processuale: histor è in Omero l’arbitro scelto fra due contendenti per ascoltare e valutare le versioni dell’uno e dell’altro e per accertare il fatto; martys, martyrion, martyria e i verbi corrispondenti indicano il testimone, la prova, la testimonianza e sono largamente usati dagli oratori attici e dadi storici: perché la storia è una narrazione fondata su testimonianze e prove, una narrazione che deve dare ragione di ciò che narra, a differenza della favola, dell’epica, del romanzo, che come la storia narrano, ma ciò che non è mai avvenuto o che può avvenire, non ciò che è avvenuto: la storia narra il probabile, ciò di cui si possono fornire le prove, e che può essere anche inverosimile, non il possibile o il verosimile.

Questa distinzione era già chiara ad Aristotele e a Polibio e spiega il ricorso frequente negli storici (da Erodoto a Tucidide, a Senofonte, a Polibio, a Diodoro, a Dione Cassio), al concetto di martyrion come prova: in II, 22, 2 Erodoto dichiara incredibile che il Nilo nasca dallo scioglimento delle nevi e ritiene proton kai meghiston martyrion, prova fondamentale della sua affermazione, i venti caldi che soffiano dalle zone da cui il Nilo deriva; Tucidide (I, 8,1) afferma che la prova (martyrion) che gli isolani dell’Egeo erano pirati Cari e Fenici è fornita dalle armi trovate nelle sepolture di Delo al tempo della purificazione dell’isola; Senofonte (Hell. I, 7, 4) ricorda che Teramene, durante il processo delle Arginuse, citò una lettera degli strateghi a conferma (martyrion) della sua versione dei fatti. Caratteristiche sono le forme polibiane (martyrion... pisteos charin II, 38, 11; martyrion pros pistin XXI, 11, 4; martyrion pros aletheian I, 20, 1 3), in cui dall’accertamento di un fatto si passa alla credibilità (pistis in greco indica fede) di chi afferma e di ciò che è stato affermato e all’idea di verità (aletheia). Il significato fondamentale di testimone, testimonianza, prova difatti storicamente accertati e della verità dei termini martys, martyria, martyrion e dei verbi corrispondenti, si ritrova nel largo uso che il Nuovo Testamento fa di essi e nella traduzione che la vulgata ne dà in latino: testis, testimonium, testificor.

Se in Luca (24, 28) e negli Atti degli Apostoli (5, 32) martys è usato chiaramente per ribadire i fondamenti storici del messaggio evangelico, nell’Apocalisse giovannea (1, 5 e 3, 14) Cristo stesso è detto "testimone fedele" (ho martys ho pistos) e viene confermato il significato del verbo martyreo in Giovanni (18, 27) in cui Gesù afferma davanti a Pilato di essere venuto ut testimonium perhibeam veritati (hina martyreso te aletheia), per rendere testimonianza alla verità. In ambedue i passi martys e martyreo hanno il significato noto nel greco classico, ma si fa strada l’idea di una testimonianza data anche con l’offerta della vita. E questo il significato che il termine martys ha nell’Apocalisse (2, 13), in cui Antipa, ucciso per la fede a Pergamo, è detto ho martys mou pistos, il mio testimone fedele: qui il testimone, che paga la sua testimonianza con l’offerta della vita, non è più testimone soltanto dei fatti e della verità, ma di una Persona, Cristo.

L’evoluzione definitiva del concetto, per cui martys assume il significato ecclesiale di Martire, martvr in latino (con un prestito dal greco), avverrà più tardi, dopo la metà del II secolo, quando la Chiesa sarà costretta a chiarire, contro le deviazioni dell’eresia montanista, il concetto di "martire secondo il vangelo": qui vale però la pena di riprendere il passo già citato di Luca 24, 48, in cui Gesù stesso, al momento di lasciare gli Apostoli dopo la resurrezione, li esorta ad essere testimoni di ciò che hanno visto: hymeis martyres touton. Nei passi corrispondenti, gli altri sinottici, Marco (16, 15) dice "annunciate il vangelo" (keryxate tò euanghelion) e Matteo (28,19) "insegnate a tutti i popoli" (matheteusate panta tà ethne): è evidente che non c’è nessun contrasto fra il kerygma e la testimonianza della storia e che il greco Luca ha tradotto spontaneamente e naturalmente l’impegno dell’annuncio con l’impegno alla testimonianza dei fatti storicamente accertati. Si capisce così il prologo del suo Vangelo, che comincia con una dichiarazione metodologica che, nelle parole e nei concetti, si rifà apertamente alla storiografia scientifica greca, di cui Tucidide era stato maestro: "Poiché molti hanno preso l’iniziativa di raccontare gli avvenimenti (pragmata), che si sono compiuti fra noi, come li hanno tramandati coloro che sono stati fin dall’inizio testimoni oculari (hoi ap’arches autoptai) e servi della Parola, ho deciso anch’io, egregio Teofilo, dopo aver vagliato tutto fin dall’inizio con senso critico (akribes) di scriverteli ordinatamente, affinché tu conosca la sicurezza (asphaleia) di ciò che ti è stato insegnato a viva voce".

C’è la raccolta delle testimonianze di chi ebbe esperienza diretta dei fatti, il richiamo all’autopsia, caro agli storici greci; c’è l’analisi critica di questi racconti (l’akribeia fondamentale per Tucidide); c’è la certezza, la sicurezza, che nasce dalla narrazione di ciò di cui si sono date le prove.

Il kerygma, l’annuncio, diventa così una narrazione storica, che si rivolge alla razionalità degli ascoltatori, dando ragione di ciò che narra.

Ricorda

"La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo". (Concilio Vaticano II, Dei Verbum, n. 19).

Bibliografia

H. Strathmann, s. v. in Grande Lessico del Nuovo Testamento, trad. it, Brescia 1970, col. 1274 sgg.
M. Sordi, Dalla storiografia classica alla storiografia cristiana, in Scritti di Storia romana, Milano 2002, p. 339 sgg.

© Il Timone n. 23, gennaio/febbraio 2003

Il Primato di… Ireneo di Giovanni Ferrario

Nato in Oriente, vescovo in Occidente, fin dal secondo secolo afferma il Primato della Chiesa di Roma. Accettato da tutto l’ ecumene cristiano. Una testimonianza preziosa che conferma la verità cattolica.

"A questa Chiesa infatti, per la sua più forte preminenza è necessario che convenga ogni Chiesa, cioè i fedeli che da ogni parte [del mondo] provengono; ad essa, nella quale da coloro che da ogni parte provengono fu sempre conservata la tradizione che discende dagli Apostoli".
È con questa definizione che Ireneo, vescovo di Lione, verso la fine del II secolo parla del primato della Chiesa di Roma, nella sua famosa opera in cinque libri Adversus Haereses.
L’importanza di questa testimonianza sul primato romano, riconosciuto sin dalle origini della Chiesa, va ricercata sia nel periodo in cui viene scritta sia, soprattutto, nello spessore del suo autore.
Nato probabilmente intorno al 135-140 vicino a Smirne, in Oriente, Ireneo ebbe come maestro il vescovo di questa città, Policarpo, il quale vantava di essere stato discepolo proprio di Giovanni l’Evangelista. Ancora giovane, per motivi a noi ignoti, si trasferì a Lione, in pieno Occidente, dove divenne prima presbitero del vescovo Potino e successivamente, alla morte di questi, vescovo.
Una prima peculiare caratteristica balza subito all’occhio. Figlio dell’Oriente (allievo di Policarpo), Ireneo rappresenta, durante la sua vita, la Chiesa d’Occidente. Si può affermare, quindi, che il vescovo di Lione racchiude in sè quelli che il papa Giovanni Paolo II chiama "i due polmoni della Chiesa".
A Ireneo interessa intrecciare il concetto di supremazia della Chiesa di Roma con quello della sua universalità. La supremazia di Roma viene spiegata riconoscendo la sua grandezza, la sua notorietà, ma soprattutto il fatto che sia stata fondata dagli Apostoli Pietro e Paolo. In realtà, il principale motivo sembra essere proprio la presenza a Roma delle tombe dei due Apostoli e principalmente quella di Pietro, eletto da Cristo quale fondamento della sua Chiesa.
L’universalità della Chiesa di Roma risulta chiara a Ireneo analizzando la lista dei dodici successori di Pietro, da Lino (primo successore) a Eleuterio (175-189). Questi vescovi di Roma infatti, il cui compito era quello di trasmettere la genuina tradizione apostolica, appartengono, tranne quattro di origine romana, a diversi luoghi del mondo cristiano (Grecia, Siria, Epiro, Aquileia,...).
Possiamo dire quindi che già nel II secolo dopo Cristo, cioè nel periodo più vicino alla comparsa del cristianesimo, il primato della Chiesa di Roma veniva riconosciuto in tutto il mondo cristiano, sia d’Oriente che d’Occidente. La Chiesa di Roma, ed essa sola, era la Chiesa universale. Tra le tante voci che si levano ad affermarlo, quella autorevole di Ireneo racchiude in sè una particolare importanza. Egli infatti, come già ricordato, appartiene sia all’Oriente, dove ebbe la sua formazione, che all’Occidente, dove svolse il suo mandato pastorale.

Bibliografia

Gianpaolo Barra, Il Primato di Pietro nella storia della Chiesa, Mimep Docete, Pessano (MI) 1995
Margherita Guarducci, Il Primato della Chiesa di Roma, Rusconi, Milano 1991
Pietro Cantoni - Marco Invernizzi, Guida introduttiva alla storia della Chiesa, Mimep-Docete, Pessano (MI) 1994.

© Il Timone n. 9, settembre/ottobre 2000
In principio era il Primato di Alessandro Nicotra

Alla fine del primo secolo la Chiesa era strutturata gerarchicamente e il Vescovo di Roma ne era a capo. Una prova.

Non sono pochi, anche tra i cattolici, quelli che mettono in dubbio il Primato della Chiesa romana, basato sul mandato che Cristo stesso affidò a Simon Pietro: "E io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa" (Mt 16,18). Eppure, esistono documenti extrabiblici che attestano e testimoniano come, sin dalla fine del primo secolo, nelle comunità cristiane fosse viva la consapevolezza di una Chiesa strutturata gerarchicamente, con al vertice il vescovo di Roma, ovvero il Papa. La prova sta in una lettera di Papa Clemente I, scritta sul finire del primo secolo, pervenutaci sia attraverso il Codice Biblico Alessandrino (V sec.), sia attraverso il Codice Greco 54 (XI sec.), custodito a Gerusalemme. Ecco i fatti. Nella comunità di Corinto alcuni fedeli avevano sollevato una sedizione contro i capi della Chiesa locale e l’eco di tali disordini, sfociati nella ingiusta rimozione di alcuni presbiteri, era arrivata sino alla Chiesa di Roma, che stava subendo la persecuzione di Domiziano. La lettera di Clemente I si riferisce proprio a questa persecuzione, da poco terminata quando il Papa mette mano allo scritto, per giustificare il fatto di "aver troppo tardato a dirimere alcune questioni che sono in discussione tra voi". Come potrebbe dirimere alcunché - ci domandiamo chi non ha la necessaria autorità? E perchè mai dovrebbe farlo il vescovo di Roma, se ha gia i suoi bravi problemi dovuti alle continue persecuzioni? La Chiesa di Corinto, oltretutto, si trovava molto lontana da Roma, ma evidentemente il Papa avverte il suo intervento come un dovere. Dovere che, a nostro avviso, nasce dalla consapevolezza di sedere sulla cattedra di Pietro e di possedere, per ciò stesso, una indiscussa autorità sulla Chiesa universale.
Sta di fatto che il vescovo di Roma, sicuro di essere ascoltato, richiama all’ordine i ribelli e li ammonisce, ricordando loro la responsabilità che hanno di fronte a Cristo: "Ma se qualcuno non obbedisce a ciò che per nostro tramite Egli [Cristo] dice, sappiamo che si vedrà implicato in una colpa e in un pericolo non indifferente. Noi però saremo innocenti di questo peccato". Il richiamo all’obbedienza da parte del Papa è significativo al pari delle minacce spirituali riservate a chi disobbedisce. Siamo di fronte, indubbiamente, ad un gesto di correzione fraterna da parte di chi deve confermare i suoi fratelli nella fede, ma anche alla consapevolezza della propria responsabilità sulla Chiesa intera. Da Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica, IV, 23, 11) sappiamo che tale avvertimento pontificio venne accolto, ascoltato e messo in pratica, con ciò confermando 1’autorità normativa e disciplinare di chi aveva pronunciato tale monito. Che importanza ha per noi questo documento? Enorme. Se da un lato ci dimostra che sin dalle origini e persino in comunità fondate direttamente dagli apostoli (Corinto) esistevano dissidenti e teste calde, d’altro lato questa epistola riveste il valore di prova che alla Chiesa di Roma e al suo Vescovo veniva riconosciuto il Primato sia giuridico che di governo rispetto alle altre chiese.

Bibliografia

Gianpaolo Barra, Il Primato di Pietro nella storia della Chiesa, Mimep Docete, Pessano (MI) 1995 .
Francesco Gligora - Biagia Catanzaro, Storia dei papi da san Pietro a Giovanni Paolo II, 2 voll., Panda edizioni, Padova 1989.
Enciclopedia Cattolica, voce Clemente I, vol. III, coll. 1809-1815.

Il Timone n. 3, settembre/ottobre 1999

La "cronaca" secondo Matteo di Alberto Azzimonti

Matteo ha visto e subito scritto, quando i testimoni oculari erano ancora vivi e potevano smentirlo. Ma non l’hanno fatto. Un’altra prova della storicità dei vangeli.

Tre frammenti piccolissimi di papiro, su cui sono scritti in greco alcuni passi del Vangelo di Matteo, sono stati datati intorno agli anni 60-66 dopo Cristo. Questo è lo straordinario risultato a cui è approdato pochi anni fa il papirologo tedesco Carsten Peter Thiede, studiando i tre frammenti custoditi al Magdalen College di Oxford.
C’è di più. Poichè questi reperti derivano da un "codice" (sono infatti scritti sul "recto" e sul "verso"), l’originale del Vangelo di Matteo, scritto su "rotolo", deve essere ancora più antico. Il codice, infatti, incomincia ad essere utilizzato nelle comunità cristiane solo poco prima dell’anno 70.
Questo significa che l’ex pubblicano compone la sua "cronaca" in un periodo di tempo vicinissimo ai fatti narrati, quando molti testimoni oculari erano ancora vivi e potevano smentirlo.
Quale cronista serio si sarebbe arrischiato a raccontare avvenimenti quali, per esempio, i miracoli di Gesù se non fossero stati perfettamente conformi alla verità dei fatti, quando migliaia di persone potevano negarne la veridicità perchè vi avevano assistito personalmente?
Oltre a ciò, i frammenti suddetti ci forniscono un’altra notizia importante: Gesù, nelle comunità cristiane di allora, era già considerato Dio incarnato.
Infatti, le parole sacre "Gesù" e "Signore" sono abbreviate in "IS" e "KE", seguendo la tradizione ebraica allora corrente, secondo la quale il nome di Dio non veniva mai scritto per esteso.
Emerge anche la conferma storica della divinità di Cristo. E la profezia fatta da Gesù circa la distruzione del tempio di Gerusalemme, avvenuta effettivamente nell’anno 70.
Dato che il Vangelo di Matteo, che la riporta (24,1-2), risale a un periodo anteriore, risulta provato il potere di Gesù di profetizzare.
I risultati ottenuti da Thiede assestano un altro duro colpo a quanti attribuiscono un contenuto "mitico" più che reale e storico alle vicende riferite dai Vangeli. Per costoro, i racconti dei miracoli, in particolare, sarebbero novelle edificanti, scritte per rendere più accattivante la figura di Gesù Cristo. E lo stesso Cristo sarebbe un personaggio dalla grande statura morale, certamente, ma un po’ "gonfiato", a causa degli accenni continui alla sua presunta divinità.
Al contrario, il pregevole lavoro di Thiede conferma ulteriormente che la fede cattolica si basa su fatti realmente accaduti e storicamente fondati.

Bibliografia

Stefano Alberto [a cura di], Vangelo e storicità. Un dibattito, BUR, Milano 1995.
Carsten Peter Thiede, Testimone oculare di Gesù. La nuova sconvolgente prova sull’origine del Vangelo, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1996.
Carsten Peter Thiede, Il papiro Magdalen. La comunità di Qumran e le origini del Vangelo, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1997.

© Il Timone n. 5, gennaio/febbraio 2000

11 agosto 2009

La sintesi dell'enciclica «Caritas in Veritate»

La sintesi dell'enciclica «Caritas in Veritate»
"La Carità nella verità, di cui Gesù s'è fatto testimone" è "la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera": inizia così Caritas in Veritate, enciclica indirizzata al mondo cattolico e "a tutti gli uomini di buona volontà". Nell'Introduzione, il Papa ricorda che "la carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa". D'altro canto, dato "il rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico", va coniugata con la verità. E avverte: "Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali". (1-4)

Lo sviluppo ha bisogno della verità. Senza di essa, afferma il Pontefice, "l'agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società". (5)

Benedetto XVI si sofferma su due "criteri orientativi dell'azione morale" che derivano dal principio "carità nella verità"; la giustizia e il bene comune. Ogni cristiano è chiamato alla carità anche attraverso una ''via istituzionale" che incida nella vita della polis, del vivere sociale. (6-7)

La Chiesa, ribadisce, "non ha soluzioni tecniche da offrire", ha però "una missione di verità da compiere" per "una società a misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione". (8-9)

Il primo capitolo del documento è dedicato al Messaggio della Populorum Progressio di Paolo VI. "Senza la prospettiva di una vita eterna - avverte il Papa - il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro". Senza Dio, lo sviluppo viene negato, "disumanizzato".(10-12)

Paolo VI, si legge, ribadì "l'imprescindibile importanza del Vangelo per la costruzione della società secondo libertà e giustizia".(13)

Nell'Enciclica Humanae Vitae, Papa Montini "indica i forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale". Anche oggi, "la Chiesa propone con forza questo collegamento". (14-15)

Il Papa spiega il concetto di vocazione presente nella Populorum Progressio. "Lo sviluppo è vocazione" giacché "nasce da un appello trascendente". Ed è davvero "integrale", sottolinea, quando è "volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo". "La fede cristiana - soggiunge - si occupa dello sviluppo non contando su privilegi o su posizioni di potere", "ma solo su Cristo". (16-18)

Il Pontefice evidenzia che "le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale". Sono innanzitutto nella volontà, nel pensiero e ancor più "nella mancanza di fraternità tra gli uomini e i popoli". "La società sempre più globalizzata – rileva – ci rende vicini, ma non ci rende fratelli". Bisogna allora mobilitarsi. affinchè l'economia evolva "verso esiti pienamente umani". (19-20)

Nel secondo capitolo, il Papa entra nel vivo dello Sviluppo umano nel nostro tempo. L'esclusivo obiettivo del profitto "senza il bene comune come fine ultimo - osserva - rischia di distruggere ricchezza e creare povertà". Ed enumera alcune distorsioni dello sviluppo: un'attività finanziaria "per lo più speculativa", i flussi migratori "spesso solo provocati" e poi mal gestiti e, ancora, "lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra". Dinnanzi a tali problemi interconnessi, il Papa invoca "una nuova sintesi umanistica". La crisi "ci obbliga a riprogettare il nostro cammino". (21)

Lo sviluppo, constata il Papa, è oggi "policentrico". "Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità" e nascono nuove povertà. La corruzione, è il suo rammarico, è presente in Paesi ricchi e poveri; a volte grandi imprese transnazionali non rispettano i diritti dei lavoratori. D'altronde, "gli aiuti internazionali sono stati spesso distolti dalle loro finalità, per irresponsabilità" dei donatori e dei fruitori. Al contempo, denuncia il Pontefice, "ci sono forme eccessive di protezione della conoscenza da parte dei Paesi ricchi, mediante un utilizzo troppo rigido del diritto di proprietà intellettuale, specialmente nel campo sanitario". (22)

Dopo la fine dei "blocchi", viene ricordato, Giovanni Paolo II aveva chiesto "una riprogettazione globale dello sviluppo", ma questo "è avvenuto solo in parte". C'è oggi "una rinnovata valutazione'" del ruolo dei "pubblici poteri dello Stato", ed è auspicabile una partecipazione della società civile alla politica nazionale e internazionale. Rivolge poi l'attenzione alla delocalizzazione di produzioni di basso costo da parte dei Paesi ricchi. "Questi processi - è il suo monito - hanno comportato la riduzione delle reti di sicurezza sociale" con "grave pericolo per i diritti dei lavoratori". A ciò si aggiunge che "i tagli alla spesa sociale, spesso anche promossi dalle istituzioni finanziarie internazionali, possono lasciare i cittadini impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi". D'altronde, si verifica anche che "i governi, per ragioni di utilità economica, limitano spesso le libertà sindacali". Ricorda perciò ai governanti che "il primo capitale da salvaguardare e: valorizzare è l'uomo, la persona nella sua integrità". (23-25)

Sul piano culturale, prosegue, le possibilità di interazioni aprono nuove prospettive di dialogo, ma vi è un duplice pericolo. In primo luogo, un eclettismo culturale in cui le culture vengono "considerate sostanzialmente equivalenti". Il pericolo opposto è "l'appiattimento culturale", "l'omologazione degli stili di vita". (26)

Rivolge così il pensiero allo scandalo della fame. Manca, denuncia il Papa, "un assetto di istituzioni economiche in grado" di fronteggiare tale emergenza. Auspica il ricorso a "nuove frontiere" nelle tecniche di produzione agricola e un'equa riforma agraria nei Paesi in via di Sviluppo. (27)

Benedetto XVI tiene a sottolineare che il rispetto per la vita "non può in alcun modo essere disgiunto" dallo sviluppo dei popoli. In varie parti del mondo - avverte -, perdurano pratiche di controllo demografico che "giungono a imporre anche l'aborto". Nei Paesi sviluppati si è diffusa una "mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale". Inoltre, prosegue, vi è "il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati" a "politiche sanitarie implicanti di fatto l'imposizione" del controllo delle nascite. Preoccupanti sono pure le "legislazioni che prevedono l'eutanasia". "Quando una società s'avvia verso la negazione e la soppressione della vita - avverte - finisce per non trovare più" motivazioni ed energie "per adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo" (28).

Altro aspetto legato allo sviluppo è il diritto alla libertà religiosa. Le violenze, scrive il Papa, "frenano lo sviluppo autentico", ciò "si applica specialmente al terrorismo a sfondo fondamentalista". Al tempo stesso, la promozione dell'ateismo da parte di molti Paesi "contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane". (29)

Per lo sviluppo, prosegue, serve l'interazione dei diversi livelli del sapere armonizzati dalla carità. (30-31)

Il Papa auspica, quindi, che le scelte economiche attuali continuino "a perseguire quale priorità l'obiettivo dell'accesso al lavoro" per tutti. Benedetto XVI mette in guardia da un'economia "del breve e talvolta brevissimo termine" che determina "l'abbassamento del livello di tutela dei diritti dei lavoratori" per far acquisire ad un Paese "maggiore competitività internazionale". Per questo, esorta una correzione delle disfunzioni del modello di sviluppo come richiede oggi anche lo "stato di salute ecologica del pianeta". E conclude sulla globalizzazione: "Senza la guida della carità nella verità, questa spinta planetaria può concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni". È necessario, perciò, "un impegno inedito e creativo". (32-33)

Fraternità, Sviluppo economico e società civile è il tema del terzo capitolo dell'Enciclica, che si apre con un elogio dell'esperienza del dono, spesso non riconosciuta "a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell'esistenza". La convinzione di autonomia dell'economia dalle "influenze di carattere morale - rileva il Papa - ha spinto l'uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo". Lo sviluppo, "se vuole essere autenticamente umano", deve invece "fare spazio al principio di gratuità". (34)

Ciò vale in particolare per il mercato. "Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca - è il suo monito - il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica", Il mercato, ribadisce, "non può contare solo su se stesso", "deve attingere energie morali da altri soggetti" e non deve considerare i poveri un "fardello, bensì una risorsa". Il mercato non deve diventare "luogo della sopraffazione del forte sul debole". E soggiunge: la logica mercantile va "finalizzata al perseguimento del bene comune di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica". Il Papa precisa che il mercato non è negativo per natura. Dunque, ad essere chiamato in causa è l'uomo, "la sua coscienza morale e la sua responsabilità". L'attuale crisi, conclude il Papa, mostra che i "tradizionali principi dell'etica sociale" - trasparenza – onestà e responsabilità - "non possono venire trascurati". Al contempo, ricorda che l'economia non elimina il ruolo degli Stati ed ha bisogno di "leggi giuste". Riprendendo la Centesimus Annus, indica la "necessità di un sistema a tre soggetti": mercato, Stato e società civile e incoraggia una "civilizzazione dell'economia". Servono "forme economiche solidali". Mercato e politica necessitano "di persone aperte al dono reciproco". (35-39)

La crisi attuale, annota, richiede anche dei "profondi cambiamenti" per l'impresa. La sua gestione "non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari", ma "deve anche farsi carico" della comunità locale. Il Papa fa riferimento ai manager che spesso «rispondono solo alle indicazioni degli azionisti" ed invita ad evitare un impiego "speculativo" delle risorse finanziarie. (40-41)

Il capitolo si chiude con una nuova valutazione del fenomeno globalizzazione, da non intendere solo come "processo socio-economico", "Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti - esorta - procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità". Alla globalizzazione serve "un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza" capace di "correggerne le disfunzioni". C'è, aggiunge, "la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza", ma la diffusione del benessere non va frenata "con progetti egoistici protezionistici". (42)

Nel quarto capitolo, l'Enciclica sviluppa il tema dello Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente. Si nota, osserva, "la rivendicazione del diritto al superfluo" nelle società opulente, mentre mancano cibo e acqua in certe regioni sottosviluppate. "I diritti individuali svincolati da un quadro di doveri", rileva, "impazziscono". Diritti e doveri, precisa, rimandano ad un quadro etico. Se invece “trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un'assemblea di cittadini" possono essere “cambiati in ogni momento". Governi e organismi internazionali non possono dimenticare "l'oggettività e l'indisponibilità" dei diritti. (43)

Al riguardo, si sofferma sulle “problematiche connesse con la crescita demografica". È "scorretto", afferma, "considerare l'aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo". Riafferma che la sessualità non si può "ridurre a mero fatto edonistico e ludico". Né si può regolare la sessualità con politiche materialistiche di forzata pianificazione delle nascite". Sottolinea poi che "l'apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica". Gli Stati, scrive, "sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità della famiglia". (44)

L'economia – ribadisce ancora – ha bisogno dell'etica per il suo collettivo funzionamento; non di un'etica qualsiasi bensì di un'etica amica della persona". La stessa centralità della persona, afferma, deve essere il principio guida "negli interventi per lo sviluppo" della cooperazione internazionale, che devono sempre coinvolgere i beneficiari. "Gli organismi internazionali – esorta il Papa – dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici", "spesso troppo costosi". Capita a volte, constata, che "i poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni burocratiche". Di qui l'invito ad una “piena trasparenza" sui fondi ricevuti. (45-47)

Gli ultimi paragrafi del capitolo sono dedicati all'ambiente. Per il credente, la natura è un dono di Dio da usare responsabilmente. In tale contesto, si sofferma sulle problematiche energetiche. "L'accaparramento delle risorse” da parte di Stati e gruppi di potere, denuncia il Pontefice, costituisce “un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri". La comunità internazionale deve perciò "trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili". “Le società tecnologicamente avanzate – aggiunge – possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico", mentre deve "avanzare la ricerca di energie alternative".

In fondo, esorta il Papa, ”è necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita'". Uno stile che oggi, in molte parti del mondo “è incline all'edonismo e al consumismo". Il problema decisivo, prosegue, "è la complessiva tenuta morale della società". E avverte: "Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale" la “coscienza umana finisce per perdere il concetto di ecologia :umana" e quello di ecologia ambientale. (48-52)

La collaborazione della famiglia umana è il cuore del quinto capitolo, in cui Benedetto XVI evidenzia che "lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia", D'altronde, si legge, la religione cristiana può con.!!ibuire ailo sviluppo "solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica". Con "la negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione", la politica "assume un volto opprimente e aggressivo". E avverte: "Nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo" tra la ragione e la fede. Rottura che "comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell'umanità". (53-56)

Il Papa fa quindi riferimento al principio di sussidiarietà, che offre un aiuto alla persona "attraverso l'autonomia dei corpi intermedi". La sussidiaretà, spiega, "è l'antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista" ed è adatta ad umanizzare la globalizzazione. Gli aiuti internazionali, constata, "possono a volte mantenere un popolo in uno stato di dipendenza", per questo vanno erogati coinvolgendo i soggetti della società civile e non solo i governi. "Troppo spesso" infatti, "gli aiuti sono valsi a creare soltanto mercati marginali per i prodotti" dei Paesi in via di sviluppo. (57-58)

Esorta poi gli Stati ricchi a "destinare maggiori quote" del Pil per lo sviluppo, rispettando gli impegni presi. ed auspica un maggiore accesso all'educazione e ancor più alla “formazione completa della persona" rilevando che, cedendo al relativismo, si diventa più poveri. Un esempio, scrive, ci è offerto dal fenomeno perverso del turismo sessuale. "è doloroso constatare - osserva - che ciò si svolge spesso con l'avallo dei governi locali, con il silenzio di quelli da cui provengono i turisti e con la complicità di tanti operatori del settore". (59-61)

Affronta poi il fenomeno "epocale" delle migrazioni. "Nessun Paese da solo - è il suo monito - può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori". Ogni migrante, soggiunge, "è una persona umana" che "possiede diritti che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione". Il Papa chiede che i lavoratori stranieri non siano considerati come una merce ed evidenzia il "nesso diretto tra povertà e disoccupazione". Invoca un lavoro decente per tutti e invita i sindacati, distinti dalla politica, a volgere lo sguardo verso i lavoratori dei Paesi dove i diritti sociali vengono violati. (62-64)

La finanza, ripete, "dopo il suo cattivo utilizzo che ha danneggiato l'economia reale, ritorni ad essere uno strumento finalizzato" allo sviluppo. E aggiunge: "Gli operatori della finanza devono riscoprire il fondamento propriamente etico della loro attività”. Il Papa chiede inoltre "una regolamentazione del settore" per garantire i soggetti più deboli. (65-66).

L'ultimo paragrafo del capitolo il Pontefice lo dedica "all'urgenza della riforma" dell'Onu e "dell'architettura economica e finanziaria internazionale". Urge "la presenza di una vera autorità politica mondiale" che si attenga "in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà". Un'autorità, afferma, che goda di "potere effettivo". e conclude con l'appello ad istituire "un grado superiore di ordinamento internazionale" per governare la globalizzazione. (67)

Il sesto ed ultimo capitolo è incentrato sul tema dello Sviluppo dei popoli e la tecnica. Il Papa mette in guardia dalla "pretesa prometeica" secondo cui "l'umanità ritiene di potersi ricreare avvalendosi dei 'prodigi' della tecnologia". La tecnica, è il suo monito, non può avere una "libertà assoluta". Rileva come "il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica". (68 - 72)

Connessi con lo sviluppo tecnologico sono i mezzi di comunicazione soçjale chiamati a promuovere "la dignità della persona e dei popoli". (73)

Campo primario "della lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo è oggi quello della bioetica", spiega il Papa che aggiunge: "La ragione senza la fede è destinata a perdersi nell'illusione della propria onnipotenza”. La questione sociale diventa “questione antropologica". La ricerca sugli embrioni, la clonazione, è il rammarico del Pontefice, "sono promosse dall'attuale cultura" che “crede di aver svelato ogni mistero". Il Papa paventa "una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite". (74-75) Viene quindi ribadito che "lo sviluppo deve comprendere una crescita spirituale oltre che materiale" Infine, l' esortazione del Papa ad avere un "cuore nuovo" per "superare la visione materialistica degli avvenimenti umani”. (76-77)

Nella Conclusione dell'Enciclica, il Papa sottolinea che lo sviluppo "ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera” di "amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace". (78-79)