25 maggio 2009

Galileo Occasione fallita o proficua lezione?

di Jean-Robert Armogathe*Tratto da Avvenire [1] del 24 maggio 2009

La condanna di Galileo non poteva accadere in un momento meno propizio: le ultime due generazioni avevano di fatto assistito ad una rivoluzione culturale senza precedenti, di cui la Chiesa cattolica era stata il promotore e il diffusore.
Nel 1582 il papato aveva proposto al mondo la riforma del calendario: era stata così dimostrata la perizia degli astronomi cattolici. Il calendario gregoriano (da papa Gregorio XIII) era opera della stupenda ricerca matematica accolta e sviluppata dalla Chiesa, soprattutto dai padri gesuiti del Collegio romano. Rimane come un monumento permanente della Controriforma cattolica. Gli interlocutori incontrati da Galileo a Roma – che l’avevano festeggiato con molti onori – erano convinti di avere ammaestrato il tempo: avevano dotato il mondo di un calendario 'perpetuo', con la più esatta (e quasi perfetta) misura del tempo. Le potenze protestanti avevano respinto una tale riforma, che rendeva manifesto ai loro occhi quanto la Roma papale fosse la sede dell’Anticristo, la nuova Babilonia, che voleva sostituirsi a Dio stesso nel dominio del tempo, cancellando la datazione pasquale stabilita dal Concilio di Nicea e sottraendo dieci giorni alla durata del mondo, anticipando così il regno del Anticristo. La riforma del calendario è stato il segno più patente della dominante competenza degli scienziati cattolici. Ma era inserita in tutta una serie di misure decise dal Concilio di Trento per incrementare la formazione del clero – seminari maggiori creati dai vescovi, collegi dei gesuiti e di altre congregazioni e ordini, accademie scientifiche: Roma aveva moltiplicato le istituzioni di insegnamento e di ricerca, con un vigore educativo che voleva essere la risposta alle riforme universitarie dei protestanti (basta ricordare Melantone, «il precettore della Germania»). Numerosi religiosi erano impegnati nel campo della ricerca scientifica, scambiandosi dati sperimentali, osservazioni astronomiche, documenti vari, nel proficuo «commercio epistolare» della respublica litteraria.
All’inizio della Controriforma la Chiesa si è voluta dotare dei mezzi disciplinari ed educativi idonei per combattere e bloccare l’estensione del movimento riformatore. Questa politica si è rivelata feconda, e ha contributo a gran parte de la riconquista cattolica (soprattutto nella Germania meridionale e nell’Europa centrale). Dal canto loro, i pontefici romani si sono affermati come mecenati delle scienze e degli arti, ad un livello mai uguagliato.
Galileo stava tra i lumi di questa scienza cattolica, era stato festeggiato dai gesuiti romani e godeva dell’amicizia di tanti cardinali, tra i quali Maffeo Barberini (papa Urbano VIII dal 1623 al 1644).
Gli studiosi hanno ricostruito i motivi della sua condanna: sono di natura politica, diplomatica, disciplinare (il non avere obbedito alla cosiddetta «ingiunzione del 1616» di non pubblicare nulla sull’eliocentrismo), personale (aveva perso la fiducia del papa). La dimensione dottrinale del reato è scarsa, e i giudici non hanno insistito su questo aspetto.
Il «caso» non ha suscitato dibattiti teologici, si trattava per i contemporanei di un caso disciplinare. Tanto più che i decreti delle congregazioni romane non erano ricevuti nella maggior parte dell’Europa cattolica, dove i regni (Spagna, Francia, Sacro Impero) e tanti altri Stati (Venezia) erano molto gelosi della propria indipendenza dalle decisioni romane: Index non viget era la parola d’ordine della maggioranza dei Paesi cattolici. Eppure i danni dalla sentenza del 1633 sono stati cospicui: si è consumata la rottura tra la Chiesa e la visione moderna, scientifica, del mondo. Si è detto che la condanna di Fénelon, nel 1699, era stata «il tramonto dei mistici» (Louis Cognet), allo stesso modo, la condanna di Galileo è stata il tramonto della scienza cattolica. Le sequele del decreto si sono allargate ben al di là del semplice fatto di una messa all’Indice. La scienza moderna si è da allora in poi sviluppata spesso senza la Chiesa e spesso contro di lei. Il colpo tirato nel campo della cosmologia ha fatto tante vittime collaterali nella critica storica e filologica e nel campo dell’erudizione. Il modernismo del primo Novecento, la cui ombra ha coperto la storia intellettuale cattolica per mezzo secolo, mi pare una lontana eppure genuina sequela di questa condanna del 1632.
Èpalese che Galileo Galilei rimane un eroe scomodo per gli zelanti dello scientismo laicista; non era certo un metafisico e, nonostante le prove subite dalla sua Chiesa, è rimasto un buon cristiano. Arthur Koestler ha ricordato le debolezze del grand’uomo: non ha inventato il cannocchiale, né il microscopio, né il pendolo isocrono, ha sbagliato in diversi campi (le maree), non ha rilevato le macchie solari e non ha potuto provare il copernicanesimo. Eppure, è stato il padre della dinamica – e questo basterebbe perché sia considerato tra i padri della scienza nuova. La sua condanna ingiustificata ne ha fatto il martire del oscurantismo clericale e il simbolo dell’autonomia del pensiero scientifico. Le Chiese ortodosse sono rimaste a lungo anti-copernicane; i grandi riformatori protestanti si sono opposti all’eliocentrismo.
Purtroppo, il caso Galileo è rimasto come una macchia per la sola Chiesa cattolica e ha inquinato le relazioni tra la Chiesa e la scienza per due secoli. Invano la condanna è stata cancellata, la Chiesa si è voluta riconciliare con la scienza contemporanea (basta ricordare l’abate agostiniano Gregor Mendel o, nel secolo scorso, il canonico belga Georges Lemaître), «ha invitato i premi Nobel al Vaticano» (si ricorda il bel libro di Regis Ladous), ha incoraggiato le istituzioni scientifiche (la Specola vaticana, l’Accademia pontificia): ci vorranno parecchie generazioni, e gli sforzi meritevoli di tanti papi (tra quali Pio XI e Pio XII), per riconciliare pienamente la Chiesa e la scienza moderna e ricucire i loro legami, senza mai allontanare totalmente il sospetto di opportunismo (in parte verificato, negli ambienti romani, intorno alla figura di Teilhard de Chardin). Eppure, nonostante i danni, non si può dare del caso Galileo un giudizio del tutto negativo. Si può sostenere pure che questa condanna fatale è stata di fatto molto utile nella storia del pensiero dottrinale e dell’insegnamento magisteriale della Chiesa cattolica. La memoria della condanna e delle sue sequele ha lasciato una traccia segnata: un atteggiamento di grande cautela nei confronti di ogni giudizio sulle nuove teorie scientifiche. Si è avverata una chiara distinzione di ordine tra le verità rivelate e quelle inventate dall’ingegno umano. Può darsi che la causa sia il timore di sbagliarsi di nuovo, di non volere aprire un 'nuovo caso Galileo', o la convinzione dei piani diversi della scienza e della Rivelazione. I due libri, quello delle Scritture e quello della Natura (per proporre un’immagine familiare, dal Medioevo in poi, alla mente occidentale), richiedono un’ermeneutica diversa, con delle regole proprie; la loro lettura non si può mescolare.
L’evoluzionismo, avversato dalle Chiese fondamentaliste americane, non è stato condannato. Sempre attenti alle norme morali e al rispetto della dignità umana, i pontefici romani hanno accolto con interesse e benevolenza i progressi della genetica, delle neuroscienze, le grandi tesi della cosmologia. I nuovi dati scientifici sono insegnati nelle scuole cattoliche; da mezzo secolo, non c’è più un Indice, e Sigmund Freud non è stato anatematizzato...
L’apertura dell’Archivio del Sant’Uffizio, voluta dall’attuale pontefice, ha svelato un’amministrazione molto preoccupata della disciplina interna e cosciente della sua debolezza nel controllare la produzione intellettuale. Galileo era troppo noto agli ambienti romani (e curiali) e la sua 'disubbidienza' troppo patente per rimanere illeso.
Ma la Chiesa ha approfittato del caso: questa occasione fallita è stata una proficua lezione, che ha facilitato nel Novecento l’aggiornamento cattolico nei confronti dei nuovi orizzonti scientifici.
*Ordinario di Storia delle idee religiose e scientifiche nell’Europa moderna presso l’Ecole pratique des hautes études alla Sorbona, Parigi.

09 maggio 2009

Quella feroce crociata laica contro i credenti

di Susanna Tamaro
Tratto da Il Giornale del 1° maggio 2009

Da un paio d’anni a questa parte, quando incontro giornalisti o conosco persone nuove, mi capita una cosa strana. Dopo i primi convenevoli, tutti improvvisamente si irrigidiscono e, con uno sguardo imbarazzato, precisano: «Guardi che io sono laico».

Avendo ben chiara l’etimologia delle parole - pur sembrandomi assolutamente fuori luogo l’osservazione - li rassicuravo. Sono laica anch’io, non ho mai preso nessun voto di un qualche ordine religioso. Poi con il passare dei mesi ho capito che c’era una grande battaglia in corso, una battaglia feroce e senza esclusione di colpi.

Il mondo sembrava diviso esattamente in due. Da una parte appunto i laici, difensori del progresso e della civiltà, e dall’altra i credenti, oscurantisti, alfieri del regresso, sessuofobici e nemici della libertà dell’uomo. E naturalmente io, in quanto credente, agli occhi di tutte le persone che mi incontravano, rientravo nella seconda categoria. Non ero preparata a trovarmi sul banco dei retrogradi, degli ottusi e quindi a dover rispondere a domande di imbarazzante limitatezza. Come tutte le persone solitarie, sono abituata a fare delle riflessioni piuttosto profonde e articolate sulle cose e davanti alla marea di questi pregiudizi e luoghi comuni mi sento completamente spiazzata.

Che cosa vuol dire credere? Obbedire ciecamente a una persona? Osservare dei rituali rassicuranti? Vivere nella paura dello scandalo, del peccato? Ho una natura anarchica e ribelle e difficilmente avrei potuto adattarmi a una qualsiasi di queste opzioni. Non sono cresciuta in un ambiente cattolico e dunque non ho assorbito - per fortuna - i nefasti condizionamenti di una fede trasformata in usanza, nella ripetizione vuota di formulette dal sapore dolciastro. Sono inoltre voracemente curiosa. Le cose che non comprendo, le voglio capire, come voglio costantemente riuscire a superare i limiti e gli ostacoli. Non ho mai avuto una folgorazione sulla via Damasco come San Paolo né quella più moderna di André Frossard. Piuttosto ho sempre sentito in me il forte desiderio di ricercare un senso e altrettanto forte la voce della coscienza. Sono stati proprio questi due fattori a spingermi verso un cammino di conoscenza e di studio che dura tutt’ora.

La maggior parte dei miei amici non è credente, eppure non ho mai sentito la necessità di criticarli, di cambiare la loro visione del mondo o, tanto più, di giudicarli. La diversità di idee mi è sempre sembrata una delle ricchezze della vita e non un nemico da combattere. Mi colpisce molto, dunque, lo spirito di feroce crociata che pervade l’universo dei laici. Perché tanto livore, tanto impiego di energia, tanta intolleranza verso persone che hanno una diversa visione del mondo? Perché tanto impellente è il bisogno di convincere le persone credenti che hanno imboccato una via sbagliata? Forse perché da noi si leva una voce in difesa della vita e contro altre barbarie che, astutamente e subdolamente, si vogliono far passare come progressi per la libertà dell’uomo?

Non c’è forse dietro questa crociata delle certezze - perché queste persone, beate loro, vivono confortate da straordinarie certezze - la volontà di rimuovere la parte più profonda dell’uomo, la più oscura, quella che lo lega al mistero del male e alla finitezza e che ne fa una creatura perennemente alla ricerca di senso?

È proprio da questa ricerca che nascono le inquietudini, i dubbi e le domande. E le domande, inseguendosi l’un l’altra, a un certo punto si scontrano con qualcosa che non è più fonte di ragionamento, ma di meraviglia, perché, a un tratto, ci si rende conto che la realtà dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo sfugge alla percezione della nostra mente.

La consapevolezza del divino non nasce dunque dalla paura né dal conformismo, ma piuttosto dalla meraviglia, dal saper vivere con emozione e stupore la ricchezza - anche tragica - che la realtà di ogni giorno ci propone. Vivere con la fede non vuol dire chiudere delle porte perché si teme quel che c’è dietro, ma aprirle tutte perché non c’è niente dietro che ci possa far paura. Né la morte - questo grande mistero che tutti ci attanaglia - né la malattia, né l’imprevedibilità della vita.

L’accettazione del mistero ci permette di far scivolare in secondo piano quella cosa così noiosa e ingombrante che si chiama «io» e che ci ossessiona con le sue monotone cantilene dalla nascita alla tomba, questo tronfio nanerottolo che ci vuol far credere che la realtà sia solo quella che lui è in grado di proiettare sullo schermo della nostra mente, che sa domare e manipolare secondo i suoi desideri, e che nulla - al di fuori del suo raggio d’azione - possa esistere. Io penso in realtà che la vita non sia stare in una gabbia, seppur confortevole, e difendere con alti strilli il suo perimetro - come vuole quel nanerottolo - ma fuggire da tutte le gabbie, da tutto ciò che rimpicciolisce e umilia la misteriosa grandezza e dignità dell’uomo.

La fede nella mia vita non ha portato alcuna chiusura, alcuna paura. Anzi, quelle che c’erano, le ha spazzate via, spazzando via anche molte certezze. Per questo resto strabiliata davanti all’immagine spauracchio del credente che viene agitata in questa battaglia, diventata ormai guerra aperta. E questa guerra, alla fine, non è la guerra tra le ottuse truppe del Papa e i paladini del progresso autodeterminato, ma tra chi è in grado di ascoltare ancora la voce della propria coscienza - che sia credente, agnostico, buddista, ebreo o musulmano - e ha a cuore la delicata complessità dell’uomo e chi ascolta invece unicamente la rumorosa grancassa dei media.