20 ottobre 2008

Dopo l'uomo la scimmia

di Giuseppe Sermonti - scrittore, saggista, già docente di genetica all'Università di Perugia.

Il cervello ha un grande volume nel feto, e si riduce, in rapporto al corpo, con la crescita. Un grande cervello è un carattere infantile.


La teoria evoluzionista, che fa discendere l’uomo dalla scimmia, ha confinato nel regno delle favole l’antropologia biblica, che vuole l’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio. Eppure i dati delle più recenti ricerche della paleontologia e della biologia molecolare sembrano indicare la grande antichità dell’uomo e il carattere secondario e derivato degli scimmioni africani. Riacquistano così significato le antiche mitologie, nelle quali l’animalesco trae le sue origini dall’umano.

La cultura occidentale si trova da oltre un secolo, di fronte ad una doppia antropogonia. Nella tradizione biblica l’uomo è creato direttamente dal Signore, a sua immagine e somiglianza. A questa antropogonia se ne sovrappone un’altra, di origine scientifica, secondo la quale l’uomo emerge dalla bestialità scimmiesca, per il gioco delle leggi di natura, senza bisogno del Signore. Si tratta di un’interpretazione di tipo gnostico che vede la creazione iniziale come l’atto malvagio di un demiurgo, e l’emergenza dell’uomo come un processo di liberazione dal male attraverso la conoscenza. (1)
L’interpretazione biologica ha guadagnato sempre più credito e l’uomo moderno è invitato a considerare l’antropogonia biblica come una favola, o come una metafora o come un raccontino per l’ingenuità dei primitivi.
Nello stesso momento, poiché l’uomo ha bisogno di confortare con significati e valori la propria origine, si è attuata una mitizzazione dell’origine bestiale dell’uomo, con la conseguente riformulazione di tutte le nostre giustificazioni e speranze. (2)
A questo punto si deve dire che l’antropogonia biologica, lungi dall’essere una realtà scientificamente comprovata, è uno dei capitoli più oscuri ed equivoci della nostra scienza moderna, e che l’origine scimmiesca degli uomini è stata sostenuta contro ogni prova neontologica e paleontologica. I risultati più recenti concordano nell’escludere una derivazione dell’uomo dalle scimmie ominidi attuali (scimpanzé, gorilla, orango) o passate, e presentano piuttosto gli scimmioni come specie derivate, recenti e senza futuro biologico. (3)

Primitività dell’uomo.
Contrariamente a quanto Darwin affermava e a quanto comunemente si crede, l’uomo non si distingue dalle altre specie di primati per essere particolarmente evoluto e specializzato. All’opposto, così come i primati rappresentano un gruppo primitivo tra i Mammiferi, l’uomo rappresenta una specie primitiva all’interno dei Primati.
La grandezza del cervello umano è stata presa a misura della evoluzione della nostra specie. Il valore di questo dato ponderale è molto discutibile. Se fosse il peso assoluto del cervello a segnare l’intelligenza, la balena e l’elefante ci supererebbero di molto. Se, come pare più giusto, si dovesse valutare il peso cerebrale in relazione al peso del corpo, lo scoiattolo saimiri, il tursoide, il topolino e la tupaia avrebbero più intelligenza di noi. Nello scoiattolo saimiri il cervello rappresenta l’8% del corpo, nell’uomo il 2%. Il grosso cervello è carattere di tutti i primati e si trova in particolare in quelli considerati più primitivi (tursiope, tupaia). (4)
Nel neonato umano il peso relativo del cervello è quasi il 10% del peso corporeo e nel neonato di scimpanzé pressappoco lo stesso. Un valore enorme rispetto al 2% che l’uomo raggiungerà nella maturità.
Il grosso cervello (per quel che conta) è un carattere primitivo e infantile, e non una caratteristica tardiva e adulta.
Quasi tutti gli altri caratteri umani hanno una configurazione primitiva e originaria, sono cioè vicini alle conformazioni tipiche dell’ordine e presenti nei più antichi Primati fossili. Il cranio sferoidale, senza creste o arcate prominenti, è un tratto primitivo, così come i piccoli denti bassi e regolari, senza canini emergenti, che si osservano nel driopiteco (10 milioni di anni fa) e nel ramapiteco (15 milioni di anni fa).
La mano umana ha l’architettura primitiva della mano dei tetrapodi. Le cinque lunghe e dritte dita chiudono una serie magica, 1.2.3.4.5., ovvero, radio+ulna, tre+quattro ossicini del metacarpo, cinque ossa del carpo che si continuano nelle falangi. Il piede presenta la plantigrada tipica dei mammiferi più primitivi, mettendo al suo servizio una perfetta integrità strutturale, con la stessa serie 1.2.3.4.5. della mano. Il parallelismo delle falangi del piede è presente nell’embrione di quasi tutti i primati, mentre il distacco dell’alluce è carattere che interviene solo al termine dello sviluppo embrionale degli scimmioni.
Confronto tra i crani fetali e adulti di scimpanzé e di uomo.Il cranio scimmiesco adulto è molto più alterato nelle proporzioni di quello umano.

La stazione eretta (cui la paleontologia assegna la venerabile età di 5-6 milioni di anni) è anch’essa un tratto primitivo. Essa comporta una base del cranio arrotondata e aperta in un forame occipitale centrale, articolato su un collo verticale. Questa è la condizione che preserva più integro l’allineamento delle vertebre e la sfericità del cranio, che sono caratteri embrionali. L’appoggio sulle nocche degli scimmioni e la stazione quadrupede comportano la torsione della nuca, l’arretramento del forame occipitale e la costrizione della base cranica. Durante lo sviluppo embrionale dei Primati il forame occipitale, inizialmente centrale, migra posteriormente. (5)
Tutti i caratteri che abbiamo menzionato collegano l’uomo all’embrione proprio e degli altri Primati, e lo indicano come specie giovanile e primigenia, spostandone la comparsa lontanissimo nel passato, oltre la testimonianza, pur impressionante, dei reperti fossili portati alla luce negli ultimi venti anni. Mentre nel 1960 si attribuiva al genere Homo non più di mezzo milione di anni, nel 1980 le datazioni di fossili del nostro genere hanno raggiunto i quattro milioni di anni.
Non tenterò un esame, neppure sommario, dei fossili degli ominidi africani, se non per ribadire che essi testimoniano la grande antichità della stazione eretta. E’ mia convinzione, come quella di autorevoli paleoantropologi, che essi non siano i nostri ascendenti, ma rami laterali di un cespuglio dalla base del quale è emersa la nostra forma. (6) e (7)
Fossili di scimmioni del tipo dello scimpanzé, del gorilla e dell’orango, benché a lungo cercati, non sono mai stati trovati. Queste forme sono, per quanto ne sappiamo, molto più recenti della forma umana e attribuire il ruolo di nostri ascendenti ad essi o a forme ad essi simili (come voleva Darwin) è trasformare quello che fu un errore scientifico in un falso scientifico.
Molecole e cromosomi
Lo sviluppo della biologia molecolare a partire dagli anni sessanta ha consentito il confronto biochimico tra le specie viventi.. Attraverso un criterio obiettivo di valutazione è divenuto possibile definire la "vicinanza biochimica" tra le specie. Specie giudicate lontane dai sistematici risultarono biochimicamente lontane, specie vicine risultarono biochimicamente molto simili. Confrontando i dati biochimici con quelli paleontologici fu anche possibile trasformare le distanze molecolari in tempi storici.

Il bipedismo degli ominidi potrebbe essere derivato direttamentem da un bipedismo rettiliano. Modello di uno Stenonicosauro e di un immaginario derivato umanoide, secondo D. Russell e R. Seguin, Canada, National Museum of Natural Sciences (Discover febbraio 1982)

Si postulò una costanza del ritmo di mutazione nel tempo, si calcolò (per varie proteine) il tempo medio richiesto per una singola modificazione, e si riuscirono così a calcolare, su base molecolare, i tempi di divergenza, cioè le epoche in cui due specie in esame avevano cominciato a registrare nelle loro molecole modifiche indipendenti, avevano cominciato a differenziarsi biochimicamente. (8)
Una delle più sconcertanti risultanze della comparazione molecolare fu la incredibile vicinanza tra l’uomo e gli scimmioni africani. Tradotta in milioni di anni, secondo i principi del cosiddetto "orologio molecolare", la divergenza tra uomini e scimpanzé risultò di 1,3 milioni di anni, (9) una data che fu poi corretta a 4-5 milioni di anni. Si trattava, comunque, d’un epoca inferiore alle più antiche documentazioni fossili relative ai primi ominidi (5-6 milioni di anni) in contraddizione con l’idea che gli ominidi derivassero dagli scimmioni.
Un’analisi più sottile delle modificazioni molecolari successive alla divergenza tra uomini e scimmioni rivelò un’altra situazione inattesa. Le modifiche erano state molto più numerose sulla linea scimmiesca che sulla linea umana. Ciò corrispondeva alla constatazione che l’ascendente comune tra uomo e scimmioni aveva una struttura molecolare molto vicina a quella dell’uomo moderno.
Sia anatomicamente che molecolarmente l’uomo risultava il Peter Pan tra i Primati, cioè la specie che non si trasformava nel tempo, il bambino che non voleva crescere. (10)
I citologi, cioè gli studiosi dei cromosomi, comparando le mappe cromosomiche di uomo, scimpanzé e gorilla raggiunsero, indipendentemente, la stessa conclusione. L’ascendente comune di uomini e scimmioni aveva cromosomi virtualmente uguali a quelli dell’uomo moderno. Anche i citologi raggiunsero la conclusione che uomini e scimmie erano derivati da un proto-uomo, il che significava, in parole semplici, che la figura umana aveva preceduto quella scimmiesca. (11)
I dati molecolari e citologici hanno sostanziato dunque quello che i dati anatomici e paleontologici avevano indicato. La grande antichità dell’uomo, il carattere primario della nostra specie rispetto al carattere secondario e derivato degli scimmioni africani.


Pan e Satana.
La caduta dell’umano nell’animalesco è un avvenimento di così grande drammaticità che ci dobbiamo attendere di trovarne una traccia nelle categorie del nostro spirito, una menzione nelle nostre mitologie. Un esame della mitologia greca e della storia sacra cristiana ci confronta subito con la narrazione della caduta in varie versioni, di cui mi limiterò a citare le due più importanti, che rappresentano due momenti cruciali nella religione olimpica e nelle religioni monoteistiche derivate dall’ebraismo.
Un mito narra dell’unione del Dio Hermes, l’angelo dei greci, con una ninfa figlia di Driope. Dall’unione nasce un bambino-animale, un essere mezzo uomo e mezzo capro, che il padre porterà in Olimpo, dove sarà assunto alla divinità col nome di Pan. (12) Pan è il dio dei boschi e delle balze montane, inseguitore di ninfe, suonatore di flauto, custode del riposo meridiano, generatore della follia, dell’incubo, del panico. Questo dio-satiro assunse un ruolo centrale nell’Olimpo ellenico, e rappresenta il lato oscuro, selvaggio, passionale dell’uomo, una condizione estrema del dionisismo, all’opposto della distaccata purezza di Apollo. Nella storia sacra cristiana incontriamo una figura iconograficamente identica al Pan greco: Satana, il diavolo.
Questo satiro, che nella nostra religione non ha nessuna delle qualità gioiose e divine di Pan, è pura malvagità, è la raffigurazione del male assoluto. Anch’esso ha origine da una figura umana, da un a arcangelo arrogante che è punito da Dio e precipitato nel basso e nell’animalesco con tutta la sua razza. Nei bestiari proto-cristiani l’animalesco non è rappresentato dal capro, ma dalla scimmia, e precisamente dalla scimmia umanoide, priva della coda. Scrive il Physiologus (II-IV sec.) "…la scimmia è un immagine del demonio: essa ha infatti un principio, ma non una fine, cioè una coda, così come il demonio in principio era uno degli arcangeli, ma la sua fine non si è trovata". (13)
I primi bestiari cristiani sono probabilmente di origine africana (egiziana) e si deve pensare che portino testimonianza di una tradizione primordiale, nella quale la scimmia derivata dall’umano appare come un simbolo fondamentale della storia sacra. L’origine dell’uomo dalla scimmia asserita da Darwin, oltre a contraddire una serie di prove naturalistiche, ribalta il fondamento della nostra sacralità, ponendo il male, sotto forma di scimmia, all’origine, e il bene come emancipazione dalla creazione primigenia. L’uomo razionale si salva da un cattivo demiurgo creatore.
Nella nostra tradizione, al contrario, è l’uomo che introduce il male nel creato, e la sua redenzione, ad opera del Dio fatto uomo, rappresenta un ritorno alla purezza originaria.


ALCUNI COMMENTI ALL’ORIGINE DEGLI SCIMMIONI DALL’UOMO
Anche se scimmia e uomo hanno comune radice…questa è però…non la forma scimmiesca ma quella umana. L’espressione volgare, se si devono usare queste formule, dovrebbe suonare così: "la scimmia deriva dall’uomo"…Max Westenöfer (1926) Heidelberg 1948
Gli ominidi non discendono dalle scimmie antropoidi, piuttosto gli scimmioni possono essere derivati dagli Ominidi… Bjorn Kurtén, Einaudi 1972
Il venerabile antenato aveva si un cervello piccolo e una faccia grande, ma camminava in posizione eretta e le sue membra avevano le proporzioni a noi note nell’uomo. André Leroi-Gourhan (1964) Einaudi 1977
Quale fanciullo di primati viventi è più simile, nella forma, agli stadi giovanili dei nostri antenati? La risposta deve essere: la nostra stessa forma infantile Stephen Jay Gould, Cambridge Mass. 1977
Noi pensiamo che la derivazione degli Ominidi dal ceppo comune a tutti i Primati ha più probabilità di essere vera della filiazione dalla linea scimmiesca. Pierre-P. Grassé, Adelphi 1979
Che tra i discendenti più elevati e lontani da un presunto modello umano originario possa trovarsi anche una scimmia antropomorfa è idea che non può sorprendere chi come me aderisce alle vedute di un’antropologia tradizionale Emilio Servadio "Il Tempo" 1983
Sarei fiero di essere un antenato dello scimmione che a differenza di certi esseri umani è nobile e dignitoso.
Alberto Bevilacqua "Il Tempo" 1983
E’ giusto e logico che da un essere perfetto come l’uomo…possa scaturire uno scimpanzé…Non mi disturba affatto essere l’antenato di uno scimpanzé, mi disturberebbe invece esserne un discendente.
Pietro Chiara "Il Tempo " 1983
Altri specialisti…si son detti: se a detta della paleontologia gli ominidi risalgono a ben cinque milioni di anni, allora per spiegare la nostra stretta parentela con lo scimpanzé o rivediamo la classificazione dei fossili smembrando la famiglia degli Ominidi, o facciamo derivare lo scimpanzé (per il quale mancano fossili) da questa famiglia…Io preferisco la buona biologia che offre poche certezze e tanti dubbi
Pietro Omodeo "L’Espresso" 1983
Potremmo anche formulare la nostra ipotesi dicendo che le scimmie derivano dall’uomo…
J. Gribbin, J. Charfas, Mondadori 1984
L’assenza di fossili di gorilla e scimpanzé conferma la probabilità di una loro derivazione molto recente in seno alla linea Ominide (bipede). Francesco Fedele, Le Scienze, Quaderni 1984
Le prove cariologiche indicano che tra gli scimmioni africani viventi e gli uomini il miglior modello cromosomico per la condizione protoominide è Homo Sapiens R. Stanyon, B. Chiarelli, K. Gottlieb, W. H. Patton, 1985



NOTE.
(1) E. Samek Ludovici, La gnosi e la genesi delle forme, rivista di biologia 74 (1-2) pp. 55-86, Perugia 1981
(2) J. R. Durant, Il mito dell’evoluzione umana, Rivista di Biologia, 74 (1-2-) pp. 125-151, Perugia 1981
(3) G. Sermonti La luna nel bosco: saggio sull’origine della scimmia, Rusconi, Milano 1985
(4) R. Holloway, I cervelli degli ominidi fossili in Gli antenati dell’uomo, Le Scienze, quaderno 17 ottobre 1984
(5) M Westenhöfer, Die Grundlagen meiner Theorie von Eigenweg der Menschen, Carl Winter, Heidelberg 1948
(6) E. Genet-Varcin, Problèmes de Philogénie chez les hominidés d’un point de vue morphologique , Ann. Paleont. Vértébrés, 61 (") pp. 211-233, 1975
(7) S. J Gould, Questa idea della vita, Editori Riuniti pp. 48-554, Roma 1984.
(8) R. E. Dickerson, Struttura e funzione di un ‘antica proteina, Le Scienze, 47, Luglio 1972
(9) M. Goodman, in "Progr. Biophys. Molec. Biol", 38, pp. 105-164, 1981
(10) A. R. Templeton Phylogenetic inference from restriction endonuclease cleavage site maps… in Evolution 37, pp. 221-244, 1983
(11) J. J. Junis, O. Prakash, The origin of man: a chromosomal pictorial legacy, Science, 215, pp. 1525-30, 1982
(12) K. Kereny, Dei ed Eroi della Grecia, vol.1 pp. 162-164, Garzanti, Milano 1976
(13) Il Fisiologo, trad. it, Adelphi, Milano 1975

CASO O FINALISMO NELL’EVOLUZIONE DEI VIVENTI?

di GIUSEPPE DE ROSA S.I.
L’indagine paleontologica sull’evoluzione dei viventi rileva che a un certo punto dell’evoluzione del pianeta Terra è comparsa la vita, dapprima in forme estremamente semplici ed elementari, e poi, a intervalli di milioni di anni, a mano a mano, in forme sempre più varie, strutturate e complesse. Recentemente (in senso geologico), è apparso l’uomo, l’essere pensante, cosciente di sé e del mondo, capace di progettare il futuro, dotato di un linguaggio simbolico, di autocoscienza e di libertà, e quindi capace di fare la storia: ciò di cui nessun altro essere è capace. Come e quando questa evoluzione sia avvenuta, secondo quali modalità e quali forme, secondo quali meccanismi e quali circostanze favorevoli o sfavorevoli, spetta alla scienza — in particolare alla paleontologia e alla biologia — dirlo, formulando ipotesi che, sottoposte a continue revisioni e miglioramenti, diano ragione del fenomeno evolutivo dei viventi, che è immensamente vario e complesso. Di ciò abbiamo parlato precedentemente(1).
Ma il «fatto» evolutivo dei viventi non pone soltanto difficili problemi alla scienza; pone interrogativi ugualmente difficili alla filosofia, in quanto riflessione sulla natura della realtà, oggetto di indagine non soltanto da parte della scienza, sulle cause che l’hanno prodotta, sui fini che persegue; più profondamente, sul suo senso. In particolare per quanto riguarda l’evoluzione dei viventi, la riflessione filosofica si chiede come tale evoluzione sia stata possibile. Infatti, nel processo evolutivo dei viventi si ha il passaggio dalla non-vita alla vita; dal vivente unicellulare al vivente pluricellulare; da questo a esseri viventi sempre più complessi e diversificati, fino a giungere all’uomo. In concreto, il processo evolutivo dei viventi comporta il passaggio «dal meno al più», una «salita» dal meno complesso al più complesso, dal più probabile al più improbabile, dal non cosciente al cosciente: l’uomo. Come spiegare razionalmente questo passaggio dal «meno al più», questa «salita» che, attraverso numerosi passaggi sempre più imprevedibili, ha condotto all’«emergere» dell’uomo?
Infatti, quello che è avvenuto non è soltanto il fatto che si siano prodotte condizioni fisiche, chimiche e termiche in cui la vita era possibile, ma che i singoli elementi che compongono l’essere vivente più semplice si siano organizzati in modo da formare prima le molecole, poi le macromolecole, poi la sintesi delle proteine, passando da strutture più elementari a strutture più complesse. In altre parole, non si tratta di dire come questi fatti siano avvenuti, ma come è stato possibile che siano avvenuti: non è il come del passaggio dal non vivente al vivente e dal vivente meno complesso al vivente più complesso che fa problema, perché il progresso scientifico si spera che riesca a scoprirne i meccanismi e quindi a spiegarlo; ma è il fatto del passaggio dal non vivente al vivente; dal vivente meno complesso al vivente più complesso che richiede una giustificazione.
Il motivo è semplice: perché potesse sorgere la vita è stata necessaria una serie di strutture organizzate in forme sempre più complesse e in maniera vitale e funzionale. Quale causa o quali cause hanno prodotto queste strutture viventi, che dai microrganismi sono passate a costruire organismi di estrema complessità? Le risposte a queste domande — sotto il profilo filosofico, cioè razionale, e dunque comune a tutti gli uomini — possono essere soltanto due: o la materia non vivente si è organizzata da se stessa con una causa estrinseca in materia vivente o l’organizzazione della materia non vivente in materia vivente ha avuto una causa intrinseca alla materia stessa o ad essa estrinseca.
«Caso» o capacità «intrinseca» della materia?
L’organizzazione «da se stessa» della materia non vivente in materia vivente è potuta avvenire «per caso» oppure per una capacità «intrinseca» alla materia non vivente?
Che la vita sia sorta «per caso» sulla Terra è oggi affermato da molti uomini di scienza, in particolare biologi, come J. Monod, autore del volume Il caso e la necessità(2). Ma in realtà è razionalmente impossibile spiegare con il caso il fatto che molti atomi si siano associati per formare gli aminoacidi; che questi si siano uniti insieme per formare le molecole di proteine, concatenandosi l’uno all’altro non a caso, ma secondo un ordine strettamente definito; che tali molecole si siano aggregate per formare macromolecole. Infatti le probabilità che tali combinazioni possano avvenire per caso sono talmente piccole, sotto l’aspetto matematico, e quindi scientifico, da potersi considerare inesistenti.
In realtà, quando il numero degli elementi che devono riunirsi secondo un dato ordine è molto elevato, le probabilità che si verifichino determinate combinazioni sono praticamente nulle. È stato calcolato che una signora che volesse assegnare un posto in una tavola di dieci coperti a dieci invitati avrebbe, per farlo, 3.628.800 modi diversi; nel caso che gli invitati fossero 20, i modi di collocarli sarebbero più di due miliardi di miliardi.
Ora una molecola di albumina contiene decine di migliaia di milioni di atomi, raggruppati secondo un certo ordine, in una struttura dissimmetrica. Se a formarla fosse stato il caso, le probabilità della sua formazione sarebbero matematicamente nulle, perché le possibilità che gli atomi si raggruppassero in maniera diversa sarebbero un numero inimmaginabile. Perciò il «caso» non può giustificare neppure la formazione di «una» molecola; tanto meno può giustificare la comparsa di miliardi di miliardi di strutture macromolecolari e di organismi pluricellulari in tempi estremamente brevi e, soprattutto, sempre più accelerati.
Ma, anche ammettendo che «per caso» si sia formata una struttura vivente, bisogna spiegare come sia potuto avvenire che, sempre «per caso», siano comparsi miliardi di miliardi di altre strutture viventi, perché quello che è riuscito una volta «per caso» non si può ripetere un numero incalcolabile di volte. Questo è talmente evidente che lo stesso J. Monod — il quale afferma che la vita è comparsa per caso sulla terra «una sola volta» — per spiegare come poi sia comparsa infinite volte secondo leggi precise deve ricorrere alla «necessità», per cui ciò che è avvenuto «per caso» una sola volta deve avvenire necessariamente («per necessità») infinite volte. E perché? Per quale misterioso motivo il «casuale» diviene «necessario», il «caso», che per sua natura è capriccioso, si converte in «necessità» ferrea e assoluta?
Altri uomini di scienza pensano che il passaggio dalla materia non vivente alla vita in forme sempre più complesse (dai microrganismi mono-e-pluricellulari all’uomo) sia avvenuto per la «capacità intrinseca» della materia di «auto-organizzarsi» in maniera «creativa», in modo da produrre il «nuovo» e il «più», passando dalla non-vita alla vita, dalle forme di vita più semplici a quelle sempre più complesse, fino a giungere alla vita intelligente, all’uomo. Si tratta — essi dicono — di una capacità propria della materia di auto-organizzarsi in forme di vita sempre più perfette. Si tratta cioè di una «legge naturale», presente nella materia, che la organizza in modo che dalla materia non vivente sorga la vita: legge «necessaria», che agisce cioè in modo necessario, cosicché dal non vivente debba necessariamente aver origine il vivente. L’esistenza di questa legge naturale intrinseca alla materia dispensa dal far ricorso al caso, che in verità non spiega nulla, ma è soltanto indice della nostra ignoranza. Non quindi il caso, ma la capacità auto-organizzativa della materia spiega il passaggio «dal meno al più», dalla non-vita alla vita, dalla vita unicellulare all’uomo.
Ma che cos’è questa capacità auto-organizzatrice della materia, la quale fa sì che dal «meno» — la materia non vivente — possa sorgere il «più»: la vita e il pensiero? In realtà, la materia non ha la vita né il pensiero. Come può allora divenire vivente e pensante?
Come spiegare il passaggio dal «meno» al «più»?
Evidentemente, questo passaggio dalla non-vita alla vita e dalla vita non-pensante al pensiero non può avvenire se non ad opera di un essere dotato di vita e di pensiero, che dia alla materia la capacità di auto-organizzarsi in modo che, quando ci siano le condizioni perché la vita possa sorgere e svilupparsi, questa sorga e si sviluppi, e, quando ci siano le condizioni perché il pensiero possa sorgere e svilupparsi, questo sorga e si sviluppi. Da ciò bisogna concludere che l’auto-organizzazione della materia non vivente e non pensante in modo tale che da essa possano venire la vita e il pensiero è opera di un essere vivente e pensante.
Soltanto infatti la presenza attiva di tale essere può spiegare perché dal «meno» possa venire il «più»; perché si verifichi non quello che è più probabile, ma quello che è più improbabile, qual è la vita; perché dal caos possa nascere l’ordine e dalla molteplicità caotica degli elementi materiali possa venire il vivente, cioè un essere in cui gli elementi materiali formano una struttura complessa, coordinata e coerente. Una struttura, quindi, estremamente complessa, ma ordinata in tale maniera che il vivente sia capace di conservarsi, di integrare nella sua struttura nuovi elementi e di eliminarne alcuni che possiede, perché nocivi; sia capace di crescere, di svilupparsi, di riparare le ferite, di riprodursi, dando vita a un organismo che ha la sua stessa struttura, di adattarsi ai mutamenti dell’ambiente; vivente insomma organizzato in modo tale che tutto tenda alla sua conservazione e alla sua riproduzione, e in cui ogni elemento sia coordinato con gli altri in modo tale che ne risulti il benessere di tutto l’organismo.
Qui si pone la domanda: qual è la natura di questo essere dotato di vita e di pensiero che dà alla materia non-vivente e non-pensante la capacità di auto-organizzarsi in modo che possano sorgere e svilupparsi la vita e il pensiero? Si tratta di una forza immanente alla materia e identificantesi con essa oppure di un essere che agisce sulla materia, ma la trascende assolutamente?
L’immanenza nel mondo materiale di una Forza organizzatrice era ammessa nell’antichità da Eraclito, da Anassagora e dagli Stoici, i quali parlavano di un Pensiero seminale (Logos spermatikos), di un’Energia attualizzante (Entelecheia), intesa come principio energetico che informa la materia, la plasma: quindi, come una Forza divina che penetra materialmente il mondo, e perciò è insita in esso sotto forma di Spirito (Pneuma), di Fuoco artefice, infiammato e pensante(3).
Questa idea fu ripresa nel Rinascimento col tema dell’Anima mundi da Marsilio Ficino(4), da Agrippa di Nettesheim, da Paracelso e da Giordano Bruno(5). In tempi più recenti, K. Marx vide nella natura materiale l’Essere primo che non dipende da nessun altro (Selbständing) perché esiste da se stessa ed è capace di «auto-generazione» (Selbsterzeugung). Nel 1982 E. Jantsch parlava di «auto-organizzazione dell’Universo» (Die Selbstorganisation des Universums), in forza della quale dal Big Bang si sarebbe giunti allo spirito umano.
Ma affermare che alla materia non vivente e non pensante sia immanente una forza organizzatrice vivente e pensante equivale ad affermare che la materia non vivente e non pensante sia vivente e pensante: ciò è assurdo e contraddittorio, salvo che non si faccia della materia un essere divino, vedendo in essa un’«emanazione» del Divino secondo la concezione neoplatonica, o un «modo» di essere di Dio, secondo la concezione spinoziana. Spinoza infatti identifica Dio e la Natura (Deus sive Natura), la Natura naturans (Dio) e la Natura naturata (il mondo). Ma in ogni concezione panteistica il mondo perde la sua consistenza e si riduce a esistere soltanto apparentemente oppure è il mondo a essere divinizzato e quindi ad essere Dio, ad assorbire Dio. In conclusione, la forza che spinge la materia ad auto-organizzarsi per passare dal «meno» al «più», cioè alla vita e al pensiero non può essere intrinseca alla materia stessa, ma dev’essere estrinseca ad essa.
C’è un finalismo nel processo evolutivo?
Ma c’è di più. Il processo evolutivo del vivente che dagli organismi monocellulari conduce all’uomo si svolge non in maniera caotica e disordinata ma secondo un «ordine» e, dunque, secondo un «disegno», un «fine» da raggiungere. Infatti nell’essere vivente — dal più semplice al più complesso — ogni elemento è coordinato con gli altri e concorre al risultato finale che è la sua vita, il suo benessere, lo sviluppo del suo organismo. Ma questo risultato finale è un fine perseguito e voluto oppure è avvenuto senza che sia stato perseguito? Questo problema oggi è molto discusso.
Sono infatti oggi molti coloro che negano ogni finalismo nel processo evolutivo, affermando che il finalismo è una illusione, come dimostra il fatto che il processo evolutivo ha comportato anomalie, disastri, errori, prodigalità inutili, forme innumerevoli di crudeltà, meccanismi che hanno condotto alla distruzione di molte forme di vita. Per spiegare gli innegabili successi del processo evolutivo, che ha condotto all’apparizione di un numero incalcolabile di specie, sempre più strutturate e complesse fino a giungere all’uomo, essi fanno appello alle felici combinazioni di elementi disparati avvenute per caso. Così J. Monod scrive che «il puro caso, il solo caso è alla radice del prodigioso («prodigioso» si badi) edificio dell’evoluzione: questa nozione centrale della biologia moderna è la sola concepibile, come unica compatibile con i fatti dell’osservazione e dell’esperienza»(6).
In realtà, c’è nel processo evolutivo un evidente finalismo, come appare dal fatto che la natura, soprattutto quella vivente, mediante meccanismi estremamente complessi — e tali che l’uomo, usando tutta la sua intelligenza e gli strumenti più perfezionati, è riuscito a imitare soltanto lontanamente — riesca a perseguire fini che sono in molti casi irraggiungibili dall’uomo, tanto grande è la loro perfezione. Infatti la finalità che, sia pure attraverso insuccessi ed errori, la natura vivente persegue è il benessere del vivente. Ora la natura raggiunge questa finalità mediante il concorso armonico e convergente di moltissimi elementi, assai disparati. Basti pensare alla formazione di una cellula, che è l’elemento-base della vita, nella quale intervengono numerosi elementi (proteine, grassi, zuccheri, sali, acqua) che si «sintetizzano», dando luogo a una struttura estremamente complessa, capace di conservarsi, di moltiplicarsi, di riprodursi e di ripararsi.
Ma soprattutto negli animali superiori e nell’uomo appare in maniera più mirabile la convergenza di innumerevoli elementi per la costruzione di un singolo organo e la convergenza di innumerevoli organi, già in sé estremamente complessi, per permettere la vita e il benessere degli esseri umani. A questo proposito, il corpo umano rappresenta la struttura più perfetta e più perfettamente organizzata che esista nell’universo: si pensi ai numerosi problemi statici e dinamici risolti dal meccanismo articolato dello scheletro, alla perfezione della mano, della gamba e del piede; si pensi alle funzioni della respirazione, della nutrizione, della digestione, della circolazione sanguigna, della canalizzazione linfatica, dell’eliminazione delle scorie: funzioni che devono procedere tutte insieme in maniera coordinata; si pensi al lavoro continuo e imponente che compiono il cuore, i reni, il fegato, il pancreas; si pensi infine alle strutture estremamente complesse dell’occhio, dell’orecchio, del cervello, che è certamente uno degli organi più complessi e più perfetti dell’universo.
Com’è possibile che queste strutture, le quali per esistere e funzionare hanno bisogno della convergenza di numerosi elementi, che devono agire in maniera coordinata e simultanea, possano essere opera di una felice coincidenza avvenuta per caso e mantenutasi necessariamente e non siano invece opera di una intelligenza ordinatrice che compie un «disegno»? Dove infatti c’è convergenza ordinata di elementi diversi per ottenere un unico scopo, lì c’è finalità e dunque intelligenza ordinatrice. Tanto più che il fine che si tende a raggiungere può essere non conosciuto: così gli animali compiono istintivamente e senza saperlo atti estremamente complessi in vista di fatti che dovranno accadere, necessari per la loro conservazione, ma che essi non conoscono. Così, ad esempio, gli uccelli costruiscono nidi assai complicati, perché i fili d’erba sono sempre più sottili e morbidi quanto più ci si avvicina al centro del nido, dove saranno deposte le uova da covare e dove dovranno vivere al caldo gli uccellini appena usciti dalle uova.
Ma qui si ripropone il problema della natura dell’intelligenza ordinatrice, cui si è già accennato: è una «legge naturale» immanente alla materia, per cui questa ha prodotto necessariamente il processo evolutivo, come ritengono gli scienziati e i filosofi che si ispirano al monismo materialista (per cui tutto è materia e prodotto dalla materia, anche il pensiero), oppure l’intelligenza ordinatrice è estrinseca alla materia e la ordina in maniera tale che possa raggiungere fini che per se stessa è incapace di raggiungere? Un’intelligenza, quindi, che trascende la natura materiale, da una parte, e, dall’altra, le dia la capacità, che essa non ha per sua natura, di passare dal «meno» al «più», dal non vivente al vivente, dal vivente al pensante.
Qual è la natura dell’intelligenza ordinatrice?
In realtà l’innegabile finalismo esistente nella natura, che si manifesta in maniera mirabile nel processo evolutivo dei viventi, si può spiegare soltanto ammettendo l’esistenza di un’Intelligenza trascendente il mondo materiale, ordinatrice e creatrice di esso.
Infatti il finalismo comporta l’esistenza di un’intelligenza. Tendere a un fine significa anzitutto conoscere il fine a cui si tende, ma che ancora non c’è: significa cioè, da una parte, anticipare il fine e, dall’altra, predisporre i mezzi al fine che si vuole raggiungere. Ora soltanto un essere intelligente può prevedere il fine, cioè una realtà che non c’è e che esiste soltanto nella mente, e può predisporre i mezzi al fine. Questo perché soltanto l’intelligenza può conoscere il fine in quanto fine, cioè la «ragione del fine», ciò per cui il fine è «fine». L’animale non intelligente conosce ciò che per esso è «fine» (il gatto sa che deve acchiappare il topo), ma non conosce «il fine in quanto fine», cioè non conosce che la cosa che per esso è fine sia tale e quindi non percepisce il rapporto dei mezzi al fine (il gatto corre per acchiappare il topo avvertendo per natura che deve correre più velocemente del topo se lo vuole raggiungere).
Conoscere il fine in quanto fine (la «ragione del fine») e predisporre i mezzi al fine per il fatto di vedere il rapporto tra mezzi e fine sono atti che soltanto l’essere intelligente può compiere, perché solamente l’intelligenza è capace di penetrare la «ragione dell’essere» delle cose. Quindi la tendenza al fine può essere soltanto opera dell’intelligenza: perciò dove c’è finalismo c’è intelligenza ordinatrice, che predispone i mezzi al fine. Se quindi nel processo evolutivo dei viventi c’è finalismo, questo non può che essere opera dell’intelligenza. Ma gli esseri viventi, a eccezione dell’uomo, non sono intelligenti. Quindi il finalismo che si rileva nel processo evolutivo dei viventi non umani, e dunque non intelligenti, ha la sua causa in un’Intelligenza che è al di fuori del processo evolutivo o, meglio, lo trascende. Si compie, quindi, nell’evoluzione dei viventi un «disegno intelligente», opera cioè di un’intelligenza.
Qual è la natura di questa intelligenza ordinatrice del processo evolutivo dei viventi e ad esso trascendente? La risposta a questa domanda, posta dall’intelligenza umana, è data dalla teologia cristiana. Infatti l’uomo non è in grado di dare una risposta piena, perché, pur affermando l’esistenza di un’intelligenza ordinatrice, non è in grado di penetrare nel «mistero» del suo essere. Così, l’evoluzione dei viventi interpella la fede e la teologia, come vedremo prossimamente.
Tuttavia, restando sul piano della ragione umana e osservando l’universo come lo mostrano l’esperienza umana e la ricerca scientifica, dobbiamo dire che l’intelligenza ordinatrice è «una» e «sapientissima». «Una», perché tutti gli esseri, viventi e non viventi, sono ordinati gli uni agli altri, in modo da formare una moltitudine, immensamente varia, ma anche «ordinata», un tutto unico e armonico. «Sapientissima», perché l’universo, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, è ordinato con infinita sapienza: se, infatti, la sapienza consiste nel predisporre i mezzi al fine da conseguire, essa è tanto più perfetta quanto più grande e più complesso è il numero dei mezzi da preordinare, e più perfetto e più costante l’ordine che si raggiunge. Ora, quando si riflette sull’illimitata varietà e complessità degli esseri che costituiscono l’universo e sull’armonia che risulta dal loro intreccio; quando, ad esempio, si pensa all’estrema varietà e complessità degli elementi che intervengono nella formazione del cervello umano e che devono essere coordinati perché esso funzioni, non si può non affermare che l’universo, nel suo insieme e in ogni singolo elemento, sia ordinato con infinita sapienza.
Questa Intelligenza ordinatrice, «una» e «sapientissima», che trascende l’universo, perché lo crea dandogli l’essere, è Dio. «Chi» Egli sia, «come» Egli agisca, noi con la sola ragione non lo sappiamo né possiamo saperlo. Dio, infatti, è per l’uomo il Mistero ineffabile. Considerando però l’universo, nel suo essere e nella sua evoluzione, possiamo affermare che Egli esiste e che è infinitamente sapiente e buono.
1 Cfr G. DE ROSA, «L’evoluzione dei viventi. Il fatto e i meccanismi», in Civ. Catt. 2006 III 232-241.
2 Cfr J. MONOD, Il caso e la necessità, Milano, Mondadori, 19713. Si noti che questa opera è di natura «filosofica», come indica il sottotitolo: Saggio sulla filosofia naturale della biologia moderna, e ha come progetto lo «spingere al limite le conclusioni autorizzate dalle scienze allo scopo di rivelarne il pieno significato». In realtà, J. Monod passa dalla «storia naturale», che è il campo proprio della scienza, alla «filosofia naturale», che fa parte della riflessione propriamente filosofica. Si noti anche che oggi molti uomini di scienza passano — quasi spontaneamente — dal campo scientifico a quello filosofico.
Così R. DAWKINS, L’orologiaio cieco, Milano, Rizzoli, 1988, si professa ateo e giustifica il suo ateismo col fatto che per rendere conto dell’evoluzione intesa come il passaggio della non-vita alla vita, dalle forme di vita semplici alle forme di vita sempre più complesse fino a giungere all’uomo, non è necessario ricorrere a un agente estraneo, come potrebbero essere un Creatore, ma basta la selezione cumulativa, che, attraverso passaggi lenti e graduali, conduca le specie a modificarsi in tale maniera da dare origine a specie totalmente diverse. Così in virtù della «selezione cumulativa», ad esempio, si è avuto il passaggio dai rettili agli uccelli. «La teoria dell’evoluzione per selezione naturale cumulativa — egli scrive — è l’unica teoria a noi nota che sia capace in linea di principio di spiegare l’esistenza della complessità organizzata. Quand’anche le prove empiriche non la favorissero, essa sarebbe ancora la teoria migliore disponibile. In realtà, però le prove empiriche la favoriscono» (p. 459). Resta la domanda: chi o che cosa muove la selezione cumulativa ad agire? In virtù di chi o di che cosa essa agisce? E, se agisce necessariamente, come si spiega la «necessità» del suo agire?
3 G. STOBEO, Eklogaí (Eclogae physicae et ethicae), I, 56.
4 Anima mundi «Dum implet corpora, intrinsecus illa movens, illa vivificat [...]. Est copula mundi» (Theologia platonica de immortalitate animorum, Parisiis, 1559).
5 Per Giordano Bruno, l’universo è una realtà viva in tutte le sue parti («la vita penetra tutto» [De la causa, Opere italiane, II, 541]) e la materia vivente è il sostrato dell’Anima mundi, la quale guida l’uomo e tutti gli altri esseri. In realtà, per Giordano Bruno l’unica realtà sostanziale dell’universo è la Natura, costituita dall’Anima mundi e dalla materia che le fa da sostrato.
6 J. MONOD, Le hasard et la nécessité, Paris, Seuil, 1970, 127. Osserva J. L. Ruiz de la Peña: «Sembra che lo sfondo del pathos antiteleologico di Monod e dei suoi fautori nasconda non tanto una convinzione scientifica, quanto un’opzione teologica (o, più precisamente, antiteologica). In effetti alla retroguardia della dialettica caso-finalità si aggrappa il duplice problema dell’origine della vita e dell’origine dell’uomo. Bisogna vedere una relazione tra i due eventi? In questo caso sarebbe assai difficile sottrarsi all’ipotesi di un Piano Supremo, di un Artefice o di una Intelligenza preveggente e omnicomprensiva. Vale a dire: al di sotto della simpatia antifinalista soggiace l’orrore del teismo; parlare di finalità, disegno o teleologia significa indurre tacitamente l’idea di un logos originario e originante» (La Teologia della creazione, Roma, Borla, 1988, 234).
«L’orrore del teismo»! In realtà, pur di non ammettere l’esistenza di un’Intelligenza ordinatrice del processo evolutivo, finalizzato all’apparizione dell’uomo, si ricorre al «caso» come legge evolutiva. Ora, questa è insufficiente a spiegare, ad esempio, il sorgere della vita. Il calcolo matematico dell’indice di probabilità che la vita, qualora fosse dovuta al puro caso, è stato compiuto da Hoyle con impegno ed efficacia: «La probabilità che si produca casualmente una sola delle 200.000 proteine che si danno appuntamento nel corpo umano è uguale a quella che una persona umana ha di risolvere alla cieca il cubo di Rubik: pensare che l’edificio della vita si sia innalzato a caso è tanto irrazionale quanto sperare che un tifone ricomponga correttamente un Boeing smontato e ridotto in rottami» (F. HOYLE, El universo inteligente, Barcelona, Grijalbo, 1984, 11-18). Il «cubo di Rubik» è un gioco formato da 27 cubetti di plastica di sei colori diversi, inventato nel 1974 dall’ungherese Emö Rubik. Offre 43 miliardi di miliardi di combinazioni possibili.© La Civiltà Cattolica 2006 III 483-492 quaderno 3750