
Questo è il blog del prof. FabioTar che ivi raccoglie materiale didattico, pensieri sparsi e meditabondazioni.
28 dicembre 2008
"Probabilmente..."

Gesù storico: fonti non cristiane 3
Gaio Cecilio Plinio Secondo (61-112/113), nipote dello storiografo Plinio il Vecchio, fu allievo del famoso retore Quintiliano, avvocato, consul suffectus e governatore della Bitinia e del Ponto. Egli ci ha lasciato una raccolta di epistole contenute in 10 libri, l’ultimo dei quali contiene il carteggio ufficiale tra lui e l’imperatore Traiano. Queste lettere risalgono per lo più al periodo del governatorato di Plinio in Bitinia, ovvero agli anni 111-113, e sono una fonte documentaria di eccezionale importanza.
In una di queste lettere - scritta nello stesso periodo in cui l’amico Tacito redigeva il suo racconto sulla persecuzione cristiana del 64 - egli si rivolge a Traiano per ottenere istruzioni da seguirsi nel trattare con i cristiani della Bitinia e del Ponto, ove, come detto, ricopriva la carica di legato con potere consolare.
Eccone il testo:
“È per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza?Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome.
Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi.
Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani.
Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo.
Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi in un giorno fissato prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una religione balorda e smodata.
Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa religione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma” (Epist. X, 96, 1-9)1
Traiano imperatore
Segue la concisa risposta dell’imperatore Traiano:
“Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi” (Epist. X, 97)2
Plinio, da quanto si ricava da questa epistola, ma in genere da tutto il carteggio, ci appare come un funzionario scrupoloso e leale, ma anche alquanto indeciso, in balia alla costante preoccupazione di non prendere iniziative personali che rischino di essere disapprovate dal suo superiore. A ciò, da quanto trapela dalle risposte, fa riscontro l’energica e sbrigativa sicurezza dell’imperatore, che talora appare perfino infastidito dai continui quesiti di Plinio; lo stile di tali risposte rispecchia, specie nel lessico, il linguaggio tecnico-amministrativo della cancelleria imperiale.
Plinio, nella sua epistola, ci informa di non aver mai “preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani”; l’uso del termine cognitiones ci informa che doveva trattarsi di veri e propri processi, e non solo di comuni operazioni di polizia. Per questo motivo, egli non sa come deve comportarsi, ed eventualmente quanto deve tenere in conto l’età, l’eventuale precedente apostasia dalla fede e il ravvedimento. Soprattutto, egli non sa se deve processare il cristiano semplicemente come tale, o per i delitti che una tale qualifica supponeva. Rispondendo, Traiano non scioglie espressamente questo dubbio; ma dalla sua risposta risulta nettamente che era il solo nome di cristiano ad essere processato, ciò che del resto risulta anche da altri documenti, apologie, atti dei martiri, etc.
In effetti, non sono oggetto di inquisizione le consuete accuse che il volgo rivolgeva ai cristiani, le nefandezze che registrava Tacito3. Né Plinio avvalora tali accuse di crimina occulta; anzi, descrivendo il pasto comune dei cristiani come semplice ed innocente, rigetta implicitamente le dicerie di infanticidio, riunioni edipodee e cene tiestee in cui ci si cibava di infanti (cattiva comprensione dell’eucarestia, in cui ci si cibava del corpo di Cristo?), e non ritiene i cristiani pericolosi membri di eterìe, sodalizi sovversivi. Ugualmente, egli ritiene che “qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione”.
Il cartaginese Quinto Settimio Fiorente Tertulliano (160-222 circa), avvocato e letterato, assieme agli altri apologisti si è ampiamente diffuso su queste calunnie che circolavano tra il popolino (su cui aveva già fatto leva Nerone per accusare i cristiani dell’incendio di Roma), dichiarando espressamente che comunque non avevano nulla a vedere con i motivi delle sentenze di morte: “Le vostre sentenze”, scrive, “muovono da un solo delitto: la confessione dell’essere cristiano. Nessun crimine è ricordato, se non il crimine del nome”4. Egli anzi cita la formula di queste sentenze: “In fin dei conti, che cosa leggete dalla tavoletta? Egli è cristiano. Perché non aggiungete anche omicida?”5
Il procedimento di Plinio è il seguente: egli interroga i presunti cristiani, e se essi risultano tali, e non ritrattano entro il terzo interrogatorio, li manda a morte. Per coloro che neghino di essere cristiani, o dicano di esserlo stato in passato, anche vent’anni prima (allusione alle apostasie dovute alla persecuzione di Domiziano?), egli pretende la dimostrazione di quanto affermano, inducendoli a sacrificare agli dei, a venerare l’effigie dell’imperatore e a imprecare contro Cristo.
Traiano approva la procedura del suo subordinato, aggiungendo che i cristiani non vanno ricercati, ma quando vengano denunciati debbono essere mandati al patibolo.
Tale curiosa istruzione sarà criticata ferocemente dagli apologisti cristiani successivi: i cristiani non vanno ricercati; se denunciati, vanno puniti, a meno che non ritrattino la loro fede. Evidentemente, se i cristiani fossero stati accusati di delitti veri e propri, non si vede perché non avrebbero dovuto essere giudicati per quanto avevano fatto; e se fossero stati individui colpevoli e pericolosi, avrebbero dovuto essere ricercati, per rendere conto dei loro misfatti.
Così Tertulliano commenta tali disposizioni imperiali:
“Scopriamo pure che nei nostri confronti è persino proibita l’indagine. […] Traiano rispose che non si doveva ricercare questa gente, però la si doveva punire se veniva denunciata. O sentenza apertamente contraddittoria! Dice che non vanno ricercati, come se fossero innocenti, e comanda che siano puniti, come se fossero colpevoli. Risparmia ed infierisce, sorvola e punisce. Per qual motivo esponi te stesso alla censura? Se li condanni, perché allora non li fai ricercare? Se non li ricerchi, perché allora non li assolvi? […] Dunque voi condannate un accusato che nessuno volle si ricercasse, il quale, mi pare, non ha meritato la pena perché colpevole, ma perché, non dovendo essere ricercato, si è fatto prendere” (Apolog. II, 6-11)6.
Il rescritto di Traiano è un documento della incerta situazione in cui il governo si trovava di fronte al successo della propaganda cristiana, e della mancanza di una precisa e coerente legislazione in merito; ma l’epistola di Plinio ci procura anche una descrizione della vita religiosa di quei cristiani della Bitinia e del Ponto. Essi “sono soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente”. Oltre al riferimento a Cristo, ed al suo culto, abbiamo il primo accenno alla celebrazione dell’eucarestia.
NOTE AL TESTO
1 Sollemne est mihi, domine, omnia de quibus dubito ad te referre. Quis enim potest melius vel cunctationem meam regere vel ignorantiam instruere? Cognitionibus de Christianis interfui numquam: ideo nescio quid et quatenus aut puniri soleat aut quaeri. Nec mediocriter haesitavi, sitne aliquod discrimen aetatum, an quamlibet teneri nihil a robustioribus differant; detur paenitentiae venia, an ei, qui omnino Christianus fuit, desisse non prosit; nomen ipsum, si flagitiis careat, an flagitia cohaerentia nomini puniantur. Interim, iis qui ad me tamquam Christiani deferebantur, hunc sum secutus modum. Interrogavi ipsos an essent Christiani. Confitentes iterum ac tertio interrogavi supplicium minatus: perseverantes duci iussi. Neque enim dubitabam, qualecumque esset quod faterentur, pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri. Fuerunt alii similis amentiae, quos, quia cives Romani erant, adnotavi in urbem remittendos. Mox ipso tractatu, ut fieri solet, diffundente se crimine plures species inciderunt. Propositus est libellus sine auctore multorum nomina continens. Qui negabant esse se Christianos aut fuisse, cum praeeunte me deos adpellarent et imagini tuae, quam propter hoc iusseram cum simulacris numinum adferri, ture ac vino supplicarent, praeterea male dicerent Christo, quorum nihil cogi posse dicuntur qui sunt re vera Christiani, dimittendos putavi. Alii ab indice nominati esse se Christianos dixerunt et mox negaverunt; fuisse quidem sed desisse, quidam ante triennium, quidam ante plures annos, non nemo etiam ante viginti. quoque omnes et imaginem tuam deorumque simulacra venerati sunt et Christo male dixerunt. Adfirmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae vel erroris, quod essent soliti stato die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum adpellati abnegarent. Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium; quod ipsum facere desisse post edictum meum, quo secundum mandata tua hetaerias esse vetueram. Quo magis necessarium credidi ex duabus ancillis, quae ministrae dicebantur, quid esset veri, et per tormenta quaerere. Nihil aliud inveni quam superstitionem pravam et immodicam. Ideo dilata cognitione ad consulendum te decucurri. Visa est enim mihi res digna consultatione, maxime propter periclitantium numerum. Multi enim omnis aetatis, omnis ordinis, utriusque sexus etiam vocantur in periculum et vocabuntur. Neque civitates tantum, sed vicos etiam atque agros superstitionis istius contagio pervagata est; quae videtur sisti et corrigi posse. Ed. M. Schuster – R. Hanslik, Leipzig, 1958.
2 Actum quem debuisti, mi Secunde, in excutiendis causis eorum, qui Christiani ad te delati fuerant, secutus es. Neque enim in universum aliquid, quod quasi certam formam habeat, constitui potest. Conquirendi non sunt; si deferantur et arguantur, puniendi sunt, ita tamen ut, qui negaverit se Christianum esse idque re ipsa manifestum fecerit, id est supplicando dis nostris, quamvis suspectus in praeteritum, veniam ex paenitentia impetret. Sine auctore vero propositi libelli nullo crimine locum habere debent. Nam et pessimi exempli nec nostri saeculi est.
3 Si vedano in proposito le indicazioni degli apologeti del II e III secolo, come Tertulliano (Apologeticum VII-IX), Minucio Felice (Octavius IX, XXVIII, XXX-XXXII), Giustino (I Apologia XII,2; XXVI,7; Dialogus cum Tryphone Iudaeo X,1) e altri.
4 Sententiae vestrae nihil nisi christianum confessum; nullum criminis nomen extat, nisi nominis crimen est (Ad nationes I, 3).
5 Denique quid de tabella recitatis? Illum christianum. Cur non et homicidam? (Apologeticum II)
6 Atquin invenimus inquisitionem quoque in nos prohibitam. […] Tunc Traianus rescripsit, hoc genus inquirendos quidem non esse, oblatos vero puniri oportere. O sententiam necessitate confusam! Negat inquirendos ut innocentes et mandat puniendos ut nocentes. Parcit et saevit, dissimulat et animadvertit. Quid temetipsam censura circumuenis? Si damnas, cur non et inquiris? Si non inquiris, cur non et absolvis? […] Damnatis itaque oblatum, quem nemo voluit requisitum; qui, puto, iam non ideo meruit poenam, quia nocens est, sed quia non requirendus inventus est. Ed. E. Waltzing, Paris, 1961.
Gesù storico: fonti non cristiane 2
Il grande storico romano Tacito (54-119), pretore, oratore, consul suffectus e proconsole in Asia, scrisse attorno al 112 i suoi 16 libri di Annali, che narrano la storia romana dalla fine del principato di Augusto (14 d.C.) alla morte dell’imperatore Nerone (68).
Nel 64 scoppiò il grande e ben noto incendio della città di Roma, del quale il medesimo imperatore fu accusato dall’opinione pubblica; il nostro storico ci narra che Nerone cercò in tutti i modi di favorire le vittime del disastro e di stornare da sé l’accusa che pendeva sul suo capo, con vari provvedimenti1
“Tuttavia né con sforzo umano, né per le munificenze del principe o cerimonie propiziatorie agli dei perdeva credito l’infamante accusa secondo la quale si credeva che l’incendio fosse stato comandato”
A questo punto si inserisce il riferimento a Cristo ed ai suoi seguaci:
“Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l'impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale pratica religiosa di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell'incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo” (Ann. XV, 44)2
La descrizione di Tacito ci informa innanzitutto che a quell’epoca la comunità cristiana di Roma disponeva di un considerevole numero di membri, poiché una ingens multitudo rappresenta certo un numero considerevole. Poi, ci fornisce qualche spunto anche per comprendere quale fosse l’idea della Roma pagana riguardo a questa nuova fede.
Tacito ci fa notare che i cristiani erano invisi al popolo “a causa delle loro nefandezze”, e che la loro fede era una “esiziale superstitio”; essi sono definiti “rei” e “meritevoli di pene severissime”, accusati di “odio del genere umano”.
Il cristianesimo era agli occhi dei pagani una superstitio nova, e i cristiani erano dei molitores rerum novarum, perché introducevano un culto e uno stile di vita assai diverso da quello tradizionale. Superstitio non è più, nel linguaggio romano, un sinonimo di religio, ma ne è l’opposto; superstitiones sono quei culti stranieri o innovatori che non corrispondono alla tradizione degli antenati (mos maiorum) e non hanno ricevuto pubblico riconoscimento. Così, fin dall’epoca antica, stabiliva la prescrizione attribuita al re Numa e riportata da Cicerone: “Nessuno abbia proprie divinità nuove o straniere, non riconosciute pubblicamente”3. Superstitiones sono definiti quindi tutti i culti orientali, il cui carattere a lor modo di vedere smodato (immodicus) non può non suscitare una istintiva diffidenza agli occhi del romano colto; non sono esenti da questa accusa il giudaismo e la religione egiziana.
Il cristianesimo è dunque una superstizione straniera, e per di più dotata dell’eccesso comune ai culti orientali; è una “superstizione nuova”, per cui non gode neppure della caratteristica dell’antichità, che dai Romani veniva sempre guardata con grande rispetto4.
La colpa dei cristiani è quella riassunta dall’espressione “odio del genere umano”: essi costituivano nella società imperiale un gruppo a sé, estraniato dalla vita pubblica e dalla religiosità comune, che era un elemento di coesione sociale. Il rifiuto di adesione alla religione dello stato era visto come un atto di sovversione politica, esattamente come la tendenza a rifiutare costumi ed istituzioni tradizionali e ad estraniarsi dalla vita pubblica. La stessa accusa era stata rivolta dagli scrittori greci ai Giudei, e il medesimo Tacito la aveva già affibbiata a loro, come ora fa con i Cristiani, tacciandoli di “ostile odio verso tutti gli altri”5. Ma mentre gli Ebrei potevano vantare l’antichità del loro culto, i Cristiani non erano visti altrimenti che come una pianta avulsa dal ceppo giudaico. Negli stessi anni, Plinio il Giovane pare essersi parzialmente ricreduto circa i pregiudizi che derivavano da tal giudizio, come ci indica la lettera che esamineremo più avanti.
Le poche parole di Tacito riferite a Gesù Cristo, mostrano che egli è ben informato a riguardo, e che la fonte a cui attinse dovette su questo punto essere ottima. Invero si sa che Tacito raccoglie le notizie con molta circospezione, al punto che talora si è potuto con buon esito riconoscere i documenti preesistenti di cui egli si è valso, e in qualche modo stabilire le derivazioni delle notizie riferite. Il fatto che Tacito non usi le classiche espressioni del “sentito dire”, quali ferunt, tradunt (si dice, si racconta) ci fa pensare che egli attingesse a notizie di prima mano.
Il problema delle fonti delle quali Tacito si è avvalso è un tema ancora aperto, ma la critica ha oramai raggiunto dei risultati assodati6. Innanzitutto Tacito, per la sua posizione politica, aveva accesso agli acta senatus, ovvero i verbali delle sedute del senato romano, e gli acta diurna populi Romani, ovvero gli atti governativi e le notizie su ciò che accadeva giorno per giorno. Egli è comunemente riconosciuto come storico tra i più scrupolosi, come ci attesta anche l’antica testimonianza di Plinio il Giovane che ne loda la diligentia7; Tacito si dedicò infatti con gran diligenza e scrupolo alla raccolta di informazioni e notizie, utilizzando non solo fonti letterarie, ma anche documentarie. Certo anch’egli, come era costume, seguì pure i lavori degli storici precedenti: egli stesso cita le opere di quattro autori, ovvero Plinio il Vecchio, Vipsiano Messalla, Cluvio Rufo e Fabio Rustico. Difficile è però la ricostruzione precisa delle fonti (tutte perdute) usate per ogni singola sezione della sua opera, che erano probabilmente le stesse cui attinsero anche i contemporanei Svetonio e Plutarco, come dimostrano certe concordanze assai precise su alcuni argomenti comuni.
Si è detto che Plinio il Vecchio (23-79, deceduto mentre osservava l’eruzione del Vesuvio) è una delle fonti esplicitamente citate da Tacito; egli, inoltre, era amico del nipote di lui, Plinio il Giovane, il cui grande legame ci è testimoniato dall’epistolario incorso tra i due.
Prima di parlare delle guerre giudaiche Tacito ha una digressione sulla Giudea che, nell’insieme, riproduce una descrizione fatta da Plinio il Vecchio nel libro V della sua Naturalis historia8. Ora, sappiamo che Plinio conosceva la Palestina direttamente, in quanto si era colà recato e forse aveva preso parte alla guerra del 70; sappiamo anche che la sua opera più importante ed ambiziosa, alla quale certamente Tacito attinse, fu la perduta A fine Aufidi Bassi, che trattava il periodo tra la fine dell’impero di Claudio e l’ascesa di Vespasiano, e che fu pubblicata postuma dal nipote. Per questo, si è avanzata da alcuni l’ipotesi che Tacito, nel riferire notizie su Gesù, abbia seguito una qualche citazione di Plinio, oggi perduta9; questa congettura, pur essendo assai seducente, deve ancora essere sottoposta a verifica.
Due analisi di questo passaggio di Tacito da parte dei proff. Marius Lavency e Ludovic Wankenne dell'università di Lovanio sono reperibili in rete, in lingua francese.
NOTE AL TESTO
1 Cfr. J: BEAUJEU, L’incende de Rome en 64 et les Chrétiens, Bruxelles, 1960.
2 Sed non ope humana, non largitionibus principis aut deum placamentis decedebat infamia quin iussum incendium crederetur. Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis adfecit, quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque. Igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt. Et pereuntibus addita ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent, aut crucibus adfixi aut flammandi, atque ubi defecisset dies in usum nocturni luminis urerentur. Hortos suos ei spectaculo Nero obtulerat et circense ludicrum edebat, habitu aurigae permixtus plebi vel curriculo insistens. Unde quamquam adversus sontis et novissima exempla meritos miseratio oriebatur, tamquam non utilitate publica sed in saevitiam unius absumerentur. Ed. E. Koestermann, Lipsiae 1965.
3 De legibus II, 8, 19.
4 I riti dei Giudei, ad esempio, per quanto diversi da quelli di tutti gli altri popoli, vanno difesi per la loro antichità. Cfr. TACITO, Historiae, V, 5, 1. Sui rapporti tra Roma e il cristianesimo, si vedano P. DE LABRIOLLE, La réaction païenne, Paris, 1934; M. SORDI, I Cristiani e l’impero romano, Milano, 1984; G. JOSSA, I Cristiani e l’impero romano da Tiberio a Marco Aurelio, Napoli, 1991.
5 Historiae V, 5.
6 Cfr. G. GARBARINO (a cura di), Letteratura latina, Torino, 1992, vol. III, p. 392-393; G. B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Storia e testi della letteratura latina, Firenze, 1989, vol. III, p. 326.
7 Epistulae VII,33.
8 Historiae V, 2-13; Naturalis historia V,15.
9 Ipotesi suggerita da P. BATIFFOL, Il valore storico dei vangeli, Firenze, 1913, p. 45.
08 dicembre 2008
Gesù storico: fonti non cristiane 1
Giuseppe Flavio
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Le prime chiare testimonianze storiche sulla persona di Gesù, ci sono tramandate dallo storico giudeo-romano Giuseppe Flavio (37-103 circa), che fu prima legato del Sinedrio, governatore della Galilea e comandante dell’esercito giudaico nella rivolta antiromana, ed in seguito consigliere al servizio dell’imperatore Vespasiano e di suo figlio Tito.
Nella sua opera Antichità giudaiche (93-94), nella quale narra la storia ebraica da Abramo sino ai suoi tempi, egli fa un accenno indiretto a Gesù; l’occasione gli è fornita dal racconto della illegale lapidazione dell’apostolo Giacomo (detto tradizionalmente il Minore), che era a capo della comunità cristiana di Gerusalemme, avvenuta nel 62, descritto come un atto sconsiderato del sommo sacerdote nei confronti di un uomo virtuoso:
“Anano […] convocò il sinedrio a giudizio e vi condusse il fratello di Gesù, detto il Cristo, di nome Giacomo, e alcuni altri, accusandoli di trasgressione della legge e condannandoli alla lapidazione” (Ant. XX, 200)1.
In un altro passo, invece, egli fa menzione della figura di Giovanni Battista; Erode Antipa, per sposare Erodiade moglie del proprio fratello aveva ripudiato la figlia di Arete, re di Nabatene, la quale si rifugiò dal proprio padre. Ne sorse una guerra nel 36 in cui Erode fu sconfitto, e questo è il commento di Giuseppe:
“Ad alcuni dei Giudei parve che l’esercito di Erode fosse stato annientato da Dio, il quale giustamente aveva vendicato l’uccisione di Giovanni soprannominato il Battista. Erode infatti mise a morte quel buon uomo che spingeva i Giudei che praticavano la virtù e osservavano la giustizia fra di loro e la pietà verso Dio a venire insieme al battesimo; così infatti sembrava a lui accettabile il battesimo, non già per il perdono di certi peccati commessi, ma per la purificazione del corpo, in quanto certamente l’anima è già purificata in anticipo per mezzo della giustizia. Ma quando si aggiunsero altre persone - infatti provarono il massimo piacere nell’ascoltare i suoi sermoni - temendo Erode la sua grandissima capacità di persuadere la gente, che non portasse a qualche sedizione - parevano infatti pronti a fare qualsiasi cosa dietro sua esortazione - ritenne molto meglio, prima che ne sorgesse qualche novità, sbarazzarsene prendendo l’iniziativa per primo, piuttosto che pentirsi dopo, messo alle strette in seguito ad un subbuglio. Ed egli per questo sospetto di Erode fu mandato in catene alla già citata fortezza di Macheronte, e colà fu ucciso”. (Ant. XVIII, 116-119)2.
È interessante il motivo politico che Giuseppe aggiunge a quello addotto dai vangeli, ovvero le continue rampogne del battista ad Erode per la sua situazione adultera.
Ma la testimonianza di gran lunga più interessante è contenuta nel capitolo decimottavo della medesima opera, ed è nota tra gli storici come Testimonium flavianum. Essa, a causa della difficoltà di alcune sue affermazioni, fu oggetto di un lungo dibattito fra gli studiosi. Così infatti si presenta nella forma a noi tramandata:
“Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, sempre che si debba definirlo uomo: era infatti autore di opere inaspettate, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti della grecità. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, coloro che da principio lo avevano amato non cessarono. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunziato i divini profeti queste e migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui. Fino ad oggi ed attualmente non è venuto meno il gruppo di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani” (Ant. XVIII, 63-64)3.
Per molti le affermazioni evidenziate dal carattere corsivo, presentate in tal modo, sembrano essere opera di uno scrittore che crede alla divinità di Gesù, alla sua risurrezione, alla sua qualità di Messia (Cristo) predetto dai profeti; a un giudeo non convertito al cristianesimo, qual era Giuseppe, tali cose sono parse difficilmente ascrivibili.
Per questo motivo, a partire dal secolo XVI con Gifanio e Osiandro, l’autenticità del passo è stata messa in dubbio da un numero sempre crescente di commentatori, pur non mancando coloro che la difendevano anche tra autori di larga fama, quali F. K. Burkitt4, A. von Harnack5, C. G. Bretschneider e R. H. J. Schutt. Una gran parte di studiosi, invece, non giudicava il Testimonium come totalmente apocrifo, opera di getto d’un cristiano che l’ha inserito in quel punto della storia di Giuseppe, bensì lo riteneva un passo interpolato, scoprendovi il lavorio di una mano cristiana che avrebbe ritoccato volontariamente o involontariamente un tratto autentico delle Antichità6 (per ritocco involontario si allude ad un errore non così raro dei copisti, i quali talora inserivano inopportunamente nel testo alcune annotazioni o glosse marginali, apposte da qualche lettore; della possibilità di tale errore ci informano già gli antichi)7.
Si è notato che se il passo su Gesù fosse stato costruito a tavolino da un interpolatore cristiano, sarebbe stato verosimilmente inserito subito dopo il resoconto di Giuseppe su Giovanni Battista, mentre in Giuseppe l’accenno a Gesù non segue il racconto di Giovanni. D’altra parte, sarebbe strano che Giuseppe abbia omesso di registrare qualche informazione su Gesù, dato che si occupa del Battista, di Giacomo e di altri personaggi del genere; né il cristianesimo, da storico qual era, gli poteva essere ignoto, essendo a quei tempi penetrato fin nella famiglia imperiale. Quando poi Giuseppe più avanti tratta di Giacomo, invece di indicare come si faceva di solito il nome del padre per identificarlo (Giacomo figlio di …), lo chiama “fratello di Gesù detto il Cristo”, senza aggiungere altro, lasciando intendere che questa figura era già nota ai suoi lettori. Se a ciò si aggiunge che Flavio Giuseppe parla già di altri “profeti” (come appunto Giovanni, oppure Teuda), è perfettamente plausibile che si sia occupato anche di Cristo.
Esaminando il problema, notiamo che:
Tutti i manoscritti greci delle opere di Giuseppe che noi possediamo dal secolo XI in giù, contengono questo passo nella medesima forma; esso è pure citato due volte dallo storico Eusebio di Cesarea nei primi decenni del IV secolo8. Quindi, a questo proposito, la tradizione testuale è forte.
Origene, alla metà del secolo III, attribuisce al nostro Giuseppe l’affermazione che Gerusalemme fu distrutta per castigo divino in punizione del martirio dell’apostolo Giacomo, aggiungendo: “E la cosa sorprendente è che egli, pur non ammettendo il nostro Gesù essere il Cristo, ciò nondimeno rese a Giacomo attestazione di tanta giustizia” (Commentarium in Matthaeum, X,17)9. Questa notizia pare essere in contraddizione con quanto si legge nel nostro Testimonium. In un’altra opera riprende il medesimo concetto, facendo egualmente rilevare come Giuseppe dica queste cose “sebbene non credente in Gesù come il Cristo” (Contra Celsum, I,47)10. Di qui si ha la conferma di quanto ipotizzato riguardo alla fede non cristiana di Giuseppe. È invece discutibile la conoscenza che Origine mostra delle Antichità: vero è che Giuseppe considera iniqua la condanna sommaria di Giacomo, e la indica come la causa della deposizione del sommo sacerdote Anano da parte dell’autorità romana; egli infatti aveva convocato il sinedrio e pronunciato una condanna a morte senza il permesso del procuratore della Giudea, approfittando del periodo che incorse tra la morte di Festo e l’insediamento del successore Albino. Purtuttavia, Giuseppe Flavio in nessun passo afferma che per il martirio di Giacomo Gerusalemme si attirò la punizione divina, come ci dà ad intendere Origene. Nello stesso errore incorre Eusebio, che attribuisce a Giuseppe la medesima sentenza11. Secondo taluni12, poiché il medesimo Eusebio per i fatti di Giacomo utilizza ampiamente l’antico storico Egesippo13, vi fu una confusione tra le notizie di Egesippo e Giuseppe, forse anche favorita da una certa somiglianza dei nomi (pronunciati in greco rispettivamente Ighìsippos e Iòsipos). Questo ci può far pensare che Origene ed Eusebio non conoscessero a fondo le opere di Giuseppe, per lo meno in questi punti.
Dal lato della critica interna, il linguaggio del Testimonium non è dissonante dallo stile di Giuseppe. Tra i tanti commentatori, è opportuno ricordare H. St. J. Thackeray, il quale trattò a lungo dell’argomento dal punto di vista stilistico e filologico, e da negatore assoluto della autenticità del passo divenne sostenitore della sua sostanziale autenticità, sposando la tesi della parziale interpolazione cristiana14.
Il testo, anche se liberato dalle aggiunte evidenti, conserva un ottimo senso, sia grammaticalmente che storicamente; secondo alcuni le aggiunte cristiane, che spezzano il fluire del discorso, sono tutte in forma parentetica, come se fossero state aggiunte in mezzo ad un testo preesistente. Se eliminate, renderebbero la narrazione più scorrevole. Alcune espressioni, inoltre, difficilmente appartengono ad un Cristiano (ad esempio, quando si dice che Pilato condannò a morte Cristo, si parla di "uomini notabili fra noi", come se l'autore fosse un Giudeo).
Sono state proposte alcune correzioni che renderebbero il testo ancora meno “cristiano”. Ad esempio, la frase “maestro di uomini che accolgono con piacere la verità” potrebbe essere corretta in “maestro di uomini che accolgono con piacere le cose inconsuete” (a causa della somiglianza delle parole greche talêthê = la verità, e taêthê, le cose inconsuete). L’espressione taêthê è poco comune, e poteva essere più facilmente confusa con il più noto talêthê. In questo caso, la descrizione di Gesù come “autore di opere straordinarie” della riga precedente si attaglierebbe benissimo a questa osservazione. Più avanti, nella frase “E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato”, se il kaí iniziale viene tradotto in senso avversativo (=ma) e non come semplice congiunzione (=e), si ha di fronte una considerazione sull’atteggiamento dei Cristiani, i quali avrebbero dovuto secondo l’autore abbandonare Gesù in seguito alla sua morte, ma invece continuarono a seguirlo.
Una svolta decisiva nell’analisi del testo fu impressa nel 1971 dalla scoperta di una Storia universale scritta in Siria nel X secolo dal vescovo e storico cristiano Agapio di Ierapoli (in Frigia, Asia Minore), che riporta una traduzione araba del Testimonium. Per molti essa rappresenta un testo migliore di quello greco tramandato, compatibile con il pensiero di Giuseppe e privo di quelle affermazioni "cristiane" che sono state contestate dai critici; in tal modo, parve confermare sia la sostanziale autenticità del passo, sia la teoria di coloro che già prima avevano ipotizzato un’interpolazione successiva con i soli metodi della critica interna15.
Ecco il testo arabo:
“Similmente dice Giuseppe l’ebreo, poiché egli racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei Giudei: “Ci fu verso quel tempo un uomo saggio che era chiamato Gesù, che dimostrava una buona condotta di vita ed era considerato virtuoso (o: dotto), e aveva come allievi molta gente dei Giudei e degli altri popoli. Pilato lo condannò alla crocifissione e alla morte, ma coloro che erano stati suoi discepoli non rinunciarono al suo discepolato (o: dottrina) e raccontarono che egli era loro apparso tre giorni dopo la crocifissione ed era vivo, ed era probabilmente il Cristo del quale i profeti hanno detto meraviglie”16.
Come è possibile notare da un semplice raffronto tra i due testi, siamo di fronte alle medesime informazioni: tuttavia, mentre nella recensione greca Giuseppe sembra riferire in prima persona le considerazioni “cristiane” nei riguardi di Gesù, quasi le condividesse, in quello arabo egli si limita esclusivamente a riportare quanto i discepoli di Gesù riferivano su di lui. Da parte sua, l’autore testimonia l’esistenza storica di quello che egli chiama in entrambi i testi un “uomo saggio”.
L’importanza di questo testo forse più “puro” sta nel fatto che è opera di un vescovo cristiano: parrebbe difficile pensare che in uno scrittore cristiano il testo di Giuseppe sia stato modificato in senso minimizzante nei confronti di Gesù. Per cui, probabilmente, Agapio aveva di fronte una migliore recensione del testo di Giuseppe17. “Migliore recensione” non significa “originale”; egli infatti traduceva da una versione siriaca, forse anch’essa viziata da qualche intervento redazionale spurio.
Alla luce di tutto ciò, i critici moderni sono ormai concordi nel ritenere il passo del Testimonium come sostanzialmente autentico nella sua testimonianza storica di Gesù, sebbene per molti esso ha aver subito prima del secolo IV delle interpolazioni cristiane. E non manca chi, diversamente spiegando le parti cosiddette "cristiane", ritiene che queste interpolazioni non esistano, e che il testo sia interamente autentico (Étienne Nodet, per esempio). L'importante monografia di Serge Badet (favorevole all'autenticità completa) affronta tutti questi problemi ed è un riferimento imprescindibile18. Lucio Troiani ha dimostrato che il testo può anche essere conservato così com'è, senza dover ipotizzare alcuna alterazione cristiana (leggi l'articolo).
Quanto ci interessa rilevare, in sostanza, è che Giuseppe Flavio cita nelle sue opere storiche tre personaggi evangelici, ovvero Giovanni Battista, Giacomo il Minore e Gesù medesimo, collocando intorno all’anno 30 d.C. l’attività e la morte di quest’ultimo, per mano di Ponzio Pilato su denuncia delle autorità giudaiche dell’epoca.
NOTE AL TESTO
1 `O ”Ananoj [..] kaq…zei sunšdrion kritîn kaˆ paragagën e„j aÙtÕ tÕn ¢delfÕn 'Ihsoà toà legomšnou Cristoà, 'I£kwboj Ônoma aÙtù, ka… tinaj ˜tšrouj, æj paranomhs£ntwn kathgor…an poihs£menoj paršdwke leusqhsomšnouj. Ed. B. Niese, Berolini, 1885-1892.
2 Tisˆ d tîn 'Iouda…wn ™dÒkei Ñlwlšnai tÕn `Hrèdou stratÕn ØpÕ toà qeoà kaˆ m£la dika…wj tinnumšnou kat¦ poin¾n 'Iw£nnou toà ™pikaloumšnou baptistoà. Kte…nei g¦r d¾ toàton `Hrèdhj ¢gaqÕn ¥ndra kaˆ to‹j 'Iouda…oij keleÚonta ¢ret¾n ™paskoàsin kaˆ t¦ prÕj ¢ll»louj dikaiosÚnV kaˆ prÕj tÕn qeÕn eÙsebe…v crwmšnoij baptismù sunišnai: oÛtw g¦r d¾ kaˆ t¾n b£ptisin ¢podekt¾n aÙtù fane‹sqai m¾ ™p… tinwn ¡mart£dwn parait»sei crwmšnwn, ¢ll' ™f' ¡gne…v toà sèmatoj, ¤te d¾ kaˆ tÁj yucÁj dikaiosÚnV proekkekaqarmšnhj. Kaˆ tîn ¥llwn sustrefomšnwn, kaˆ g¦r ¼sqhsan ™pˆ ple‹ston tÍ ¢kro£sei tîn lÒgwn, de…saj `Hrèdhj tÕ ™pˆ tosÒnde piqanÕn aÙtoà to‹j ¢nqrèpoij m¾ ™pˆ ¢post£sei tinˆ fšroi, p£nta g¦r ™ókesan sumboulÍ tÍ ™ke…nou pr£xontej, polÝ kre‹tton ¹ge‹tai pr…n ti neèteron ™x aÙtoà genšsqai prolabën ¢nele‹n toà metabolÁj genomšnhj [m¾] e„j pr£gmata ™mpesën metanoe‹n. Kaˆ Ð mn Øpoy…v tÍ `Hrèdou dšsmioj e„j tÕn Macairoànta pemfqeˆj tÕ proeirhmšnon froÚrion taÚtV kt…nnutai.
3 G…netai d kat¦ toàton tÕn crÒnon 'Ihsoàj sofÕj ¢n»r, e‡ge ¥ndra aÙtÕn lšgein cr»· Ãn g¦r paradÒxwn œrgwn poiht»j, did£skaloj ¢nqrèpwn tîn ¹donÍ t¢lhqÁ decomšnwn, kaˆ polloÝj mn 'Iouda…ouj, polloÝj d kaˆ toà `Ellhnikoà ™phg£geto· `O CristÕj oátoj Ãn. Kaˆ aÙtÕn ™nde…xei tîn prètwn ¢ndrîn par' ¹m‹n staurù ™pitetimhkÒtoj Pil£tou oÙk ™paÚsanto oƒ tÕ prîton ¢gap»santej· ™f£nh g¦r aÙto‹j tr…thn œcwn ¹mšran p£lin zîn tîn qe…wn profhtîn taàt£ te kaˆ ¥lla mur…a perˆ aÙtoà qaum£sia e„rhkÒtwn. E„j œti te nàn tîn Cristianîn ¢pÕ toàde çnomasmšnon oÙk ™pšlipe tÕ fàlon.
4 In «Theologisch Tijdschrift» (1913), p. 135 ss.
5 Der jüdisch Geschichtsschreiber Josephus und Jesus Christus, in «Internationale Monatsschrift für Wissenschaft, Kunst und Technik» VII (1913), coll. 1037-1068. Ma la posizione dell'autore non fu sempre coerente.
6 Già alla fine del XIX secolo T. REINACH sosteneva questa tesi; cfr. in «Revue des Études juives» XXXV (1897), p. 1 ss. Egli fu uno di coloro che tentarono di recuperare i testo originale espungendo quei passi che parevano inaccettabili. Più recentemente E. Bammel ha tentato anch’egli una ricostruzione, ottenendo il massimo mutamento di significato con minime alterazioni testuali (poche lettere all’interno delle parole); cfr. O. BETZ et alii (a cura di), Josephus Studien, Göttingen, 1974, pp. 9-22. In generale sulle posizioni degli studiosi, cfr. A. M. DUBARLE, L’originalité du témoignage de Flavius Josèphe sur Jésus, in «Recherches des Sciences Religieuses» LII (1964), pp. 177-203, e .
7 HIERONYMUS, Epistula CVI, 46: "Mi stupisco del fatto che non so qual temerario ha pensato di dover incorporare nel testo una nostra annotazione marginale, che abbiamo scritto per istruzione del lettore [...] Perciò se è stato aggiunto qualcosa a lato per studio, non deve essere incorporato al testo"; ed. J. Labourt, Paris, 1995, pp. 124-125. Vedi anche per lo stesso problema le osservazioni di Galeno (Claudii Galeni opera omnia, ed. C. G. Kühn, Leipzig, 1824, XVI, 202; XVII, 634). Cfr. R. DEVREESSE, Introduction à l'étude des manuscrits grecs, Paris, Imprimerie National, 1954, p. 81.
8 Historia ecclesiastica I, 11; Demonstratio evangelica III, 3, 105-106.
9 Kaˆ «tÕ qaumastÒn ™stin» Óti, tÕn 'Ihsoàn ¹mîn oÙ katadex£menoj enai CristÒn, oÙdn Âtton 'IakèbJ dikaiosÚnhn ™martÚrhse tosaÚthn. Ed. E. Klostermann, Leipzig, 1933.
10 Ka…toi ge ¢pistîn tù 'Ihsoà æj Cristù. Ed. M. Borret, Paris, 1967.
11 Historia ecclesiastica II, 23, 20.
12 Ad esempio si veda G. RICCIOTTI, in Flavio Giuseppe, lo storico Giudeo-romano, vol. I, Torino, 19492, p. 157.
13 Ivi, II, 23, 4-18. Egesippo era uno storico attivo all’epoca dell’imperatore Marco Aurelio (161-180), noto per i suoi cinque libri di Memorie, di cui conserviamo qualche frammento.
14 L’analisi minuziosa del passo si trova in Josephus: the Man and the Historian, New York, 1929, pp. 136-149. A p. 137 Thackeray afferma: “L’evidenza del linguaggio, che da un lato mostra segni dello stile dell’autore, e dall’altro non è quello che avrebbe usato un cristiano, mi appare decisiva”, e ancora, a p. 142: “Il criterio dello stile fa pendere la bilancia in favore dell’autenticità del passaggio considerato nel suo complesso, se non in ogni dettaglio. Se il testo fu mutilato e modificato, lo fu almeno su una base di Giuseppe”.
15 Cfr. S. PINÈS, An arabic version of the Testimonium Flavianum and its implications, Jerusalem, 1971.
16 Traduzione tratta da J. MAIER, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, 1994, p. 65.
17 Invece Pier Angelo Gramaglia, col metodo dell’analisi linguistica e tramite una retroversione greca del testo arabo, sminuisce l’importanza della recensione araba del testo come testimonianza di un testo puro di Giuseppe (Il Testimonium Flavianum. Analisi linguistica, in «Henoch» XX (1998), pp. 153-177). Come si può vedere, la questione è ancora aperta.
18 É. NODET, Jésus et Jean Baptiste selon Josèphe, in «Revue Biblique» XCII (1985), pp. 321-348 e 497-524; S. BARDET, Le Testimonium Flavianum. Examen historique, considérations historiographiques, Paris, Cerf, 2002. Per una ricognizione delle interpretazioni del passo nei secoli, si veda pure A. WHEALEY, Josephus on Jesus. The Testimonium Flavianum Controversy from Late Antiquity to Modern Times, New York, Lang, 2003; cfr. anche quanto riportato all'indirizzo http://www.josephus.yorku.ca/pdf/whealey2000.pdf. In genere, sul sito http://www.josephus.yorku.ca si trova una buona bibliografia.
grazie a www.Christianismus.it
05 dicembre 2008
STORICITA' DI GESU': IL SILENZIO DELLE FONTI NON CRISTIANE?
Inizio qui un breve "trattato" sulla storicità di Gesù detto il Cristo affinchè si possano evitare certe brutte figure.
Il silenzio delle fonti storiche non cristiane?
Tratto da: Theissen-Mertz, Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 1999, pg. 123-124
Obiezione: Le fonti non cristiane tacciono in ampia misura su Gesù. Anche là dove potremmo aspettarci informazioni su d lui, di fatto non ne troviamo
Filone di Alessandria (+ 42/50 d.C.), contemporaneo di Gesù,
parla di Pilato: «A questo riguardo si potrebbe parlare della sua
corruttibiità, della sua violenza, dei suoi furti, maltrattamenti,
offese, delle esecuzioni capitali da lui decise senza processo, nonché
della sua ferocia incessante e insopportabile» (LegGai 302). Su Gesù,
non una parola.
Giusto di Tiberiade, contemporaneo di Flavio Giuseppe, scrisse
una Cronaca dei re giudei e una Storia della guerra giudaica. Secondo
la notizia fornitaci da Fozio di Costantinopoli (820-886 d.C. circa),
che conosceva l'opera oggi andata perduta, nemmeno questo autore
menzionava Gesù (Photius cod.13).
CONTROARGOMENTI: Le fonti antiche tacciono su molti personaggi sulla cui storicità non si nutrono dubbi
Giovanni il Battista è menzionato da Flavio Giuseppe (Ant. 18,116-119)
e dai testi mandei, ma non da Filone, da Paolo e dagli scritti
rabbinici.
Paolo di Tarso è attestato da lettere autentiche, ma di lui non fanno
menzione né Flavio Giuseppe, né altri autori non cristiani.
Il Maestro di Giustizia è noto soltanto dagli scritti di Qumran,
mentre negli antichi resoconti tramandatici sugli Esseni mancano
notizie su di lui (Flavio Giuseppe, Filone, Plinio il Vecchio).
Rabbi Hillel, il fondatore della famosa tradizione scolastica degli
Hilleliti, non è mai menzionato da Flavio Giuseppe, benchè questi si
dica seguace del fariseismo.
Bar Kochba, il capo messianico della rivolta giudaica contro i Romani
negli anni 132-135 d.C., nel racconto di Dione Cassio su questa stessa
rivolta è passato del tutto sotto silenzio.
Le menzioni di Gesù presso gli storici antichi dissipano ogni
dubbio sulla sua storicità.
Le informazioni su Gesù in scrittori ebrei e pagani (vedi
indice fonti non cristiane) - in particolare quelle che troviamo in
Flavio Giuseppe, nella lettera di Sarapion e in Tacito - , mostrano
che nell'antichità la storicità di Gesù era data per scontata, e a
ragione, come si evince da due osservazioni sulel fonti menzionate:
> le informazioni su Gesù sono tra loro indipendenti. Tre scrittori appartenenti ad ambienti diversi elaborano, indipendentemente, l'uno dall'altro, notizie su Gesù: un ebreo aristocratico che è storico di professione, un filosofo siriano, un uomo di Stato e storiografo romano;
> tutti e tre sono al corrente dell'esecuzione di Gesù, ma in maniera diversa: Tacito dichiara responsabile di essa Ponzio Pilato, Mara bar Sarapion il popolo giudaico. il Testimonium Flavianum (verosimilmente) l'aristocrazia giudaica in collaborazione con il governatore romano. L'esecuzione era scandalosa per qualsivoglia forma di venerazione di Gesù. In quanto skàndalon (cfr. 1 Cor 1,18ss), non poteva certo essere inventata.
20 ottobre 2008
Dopo l'uomo la scimmia
Il cervello ha un grande volume nel feto, e si riduce, in rapporto al corpo, con la crescita. Un grande cervello è un carattere infantile.
La teoria evoluzionista, che fa discendere l’uomo dalla scimmia, ha confinato nel regno delle favole l’antropologia biblica, che vuole l’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio. Eppure i dati delle più recenti ricerche della paleontologia e della biologia molecolare sembrano indicare la grande antichità dell’uomo e il carattere secondario e derivato degli scimmioni africani. Riacquistano così significato le antiche mitologie, nelle quali l’animalesco trae le sue origini dall’umano.
La cultura occidentale si trova da oltre un secolo, di fronte ad una doppia antropogonia. Nella tradizione biblica l’uomo è creato direttamente dal Signore, a sua immagine e somiglianza. A questa antropogonia se ne sovrappone un’altra, di origine scientifica, secondo la quale l’uomo emerge dalla bestialità scimmiesca, per il gioco delle leggi di natura, senza bisogno del Signore. Si tratta di un’interpretazione di tipo gnostico che vede la creazione iniziale come l’atto malvagio di un demiurgo, e l’emergenza dell’uomo come un processo di liberazione dal male attraverso la conoscenza. (1)
L’interpretazione biologica ha guadagnato sempre più credito e l’uomo moderno è invitato a considerare l’antropogonia biblica come una favola, o come una metafora o come un raccontino per l’ingenuità dei primitivi.
Nello stesso momento, poiché l’uomo ha bisogno di confortare con significati e valori la propria origine, si è attuata una mitizzazione dell’origine bestiale dell’uomo, con la conseguente riformulazione di tutte le nostre giustificazioni e speranze. (2)
A questo punto si deve dire che l’antropogonia biologica, lungi dall’essere una realtà scientificamente comprovata, è uno dei capitoli più oscuri ed equivoci della nostra scienza moderna, e che l’origine scimmiesca degli uomini è stata sostenuta contro ogni prova neontologica e paleontologica. I risultati più recenti concordano nell’escludere una derivazione dell’uomo dalle scimmie ominidi attuali (scimpanzé, gorilla, orango) o passate, e presentano piuttosto gli scimmioni come specie derivate, recenti e senza futuro biologico. (3)
Primitività dell’uomo.
Contrariamente a quanto Darwin affermava e a quanto comunemente si crede, l’uomo non si distingue dalle altre specie di primati per essere particolarmente evoluto e specializzato. All’opposto, così come i primati rappresentano un gruppo primitivo tra i Mammiferi, l’uomo rappresenta una specie primitiva all’interno dei Primati.
La grandezza del cervello umano è stata presa a misura della evoluzione della nostra specie. Il valore di questo dato ponderale è molto discutibile. Se fosse il peso assoluto del cervello a segnare l’intelligenza, la balena e l’elefante ci supererebbero di molto. Se, come pare più giusto, si dovesse valutare il peso cerebrale in relazione al peso del corpo, lo scoiattolo saimiri, il tursoide, il topolino e la tupaia avrebbero più intelligenza di noi. Nello scoiattolo saimiri il cervello rappresenta l’8% del corpo, nell’uomo il 2%. Il grosso cervello è carattere di tutti i primati e si trova in particolare in quelli considerati più primitivi (tursiope, tupaia). (4)
Nel neonato umano il peso relativo del cervello è quasi il 10% del peso corporeo e nel neonato di scimpanzé pressappoco lo stesso. Un valore enorme rispetto al 2% che l’uomo raggiungerà nella maturità.
Il grosso cervello (per quel che conta) è un carattere primitivo e infantile, e non una caratteristica tardiva e adulta.
Quasi tutti gli altri caratteri umani hanno una configurazione primitiva e originaria, sono cioè vicini alle conformazioni tipiche dell’ordine e presenti nei più antichi Primati fossili. Il cranio sferoidale, senza creste o arcate prominenti, è un tratto primitivo, così come i piccoli denti bassi e regolari, senza canini emergenti, che si osservano nel driopiteco (10 milioni di anni fa) e nel ramapiteco (15 milioni di anni fa).
La mano umana ha l’architettura primitiva della mano dei tetrapodi. Le cinque lunghe e dritte dita chiudono una serie magica, 1.2.3.4.5., ovvero, radio+ulna, tre+quattro ossicini del metacarpo, cinque ossa del carpo che si continuano nelle falangi. Il piede presenta la plantigrada tipica dei mammiferi più primitivi, mettendo al suo servizio una perfetta integrità strutturale, con la stessa serie 1.2.3.4.5. della mano. Il parallelismo delle falangi del piede è presente nell’embrione di quasi tutti i primati, mentre il distacco dell’alluce è carattere che interviene solo al termine dello sviluppo embrionale degli scimmioni.
Confronto tra i crani fetali e adulti di scimpanzé e di uomo.Il cranio scimmiesco adulto è molto più alterato nelle proporzioni di quello umano.
La stazione eretta (cui la paleontologia assegna la venerabile età di 5-6 milioni di anni) è anch’essa un tratto primitivo. Essa comporta una base del cranio arrotondata e aperta in un forame occipitale centrale, articolato su un collo verticale. Questa è la condizione che preserva più integro l’allineamento delle vertebre e la sfericità del cranio, che sono caratteri embrionali. L’appoggio sulle nocche degli scimmioni e la stazione quadrupede comportano la torsione della nuca, l’arretramento del forame occipitale e la costrizione della base cranica. Durante lo sviluppo embrionale dei Primati il forame occipitale, inizialmente centrale, migra posteriormente. (5)
Tutti i caratteri che abbiamo menzionato collegano l’uomo all’embrione proprio e degli altri Primati, e lo indicano come specie giovanile e primigenia, spostandone la comparsa lontanissimo nel passato, oltre la testimonianza, pur impressionante, dei reperti fossili portati alla luce negli ultimi venti anni. Mentre nel 1960 si attribuiva al genere Homo non più di mezzo milione di anni, nel 1980 le datazioni di fossili del nostro genere hanno raggiunto i quattro milioni di anni.
Non tenterò un esame, neppure sommario, dei fossili degli ominidi africani, se non per ribadire che essi testimoniano la grande antichità della stazione eretta. E’ mia convinzione, come quella di autorevoli paleoantropologi, che essi non siano i nostri ascendenti, ma rami laterali di un cespuglio dalla base del quale è emersa la nostra forma. (6) e (7)
Fossili di scimmioni del tipo dello scimpanzé, del gorilla e dell’orango, benché a lungo cercati, non sono mai stati trovati. Queste forme sono, per quanto ne sappiamo, molto più recenti della forma umana e attribuire il ruolo di nostri ascendenti ad essi o a forme ad essi simili (come voleva Darwin) è trasformare quello che fu un errore scientifico in un falso scientifico.
Molecole e cromosomi
Lo sviluppo della biologia molecolare a partire dagli anni sessanta ha consentito il confronto biochimico tra le specie viventi.. Attraverso un criterio obiettivo di valutazione è divenuto possibile definire la "vicinanza biochimica" tra le specie. Specie giudicate lontane dai sistematici risultarono biochimicamente lontane, specie vicine risultarono biochimicamente molto simili. Confrontando i dati biochimici con quelli paleontologici fu anche possibile trasformare le distanze molecolari in tempi storici.
Il bipedismo degli ominidi potrebbe essere derivato direttamentem da un bipedismo rettiliano. Modello di uno Stenonicosauro e di un immaginario derivato umanoide, secondo D. Russell e R. Seguin, Canada, National Museum of Natural Sciences (Discover febbraio 1982)
Si postulò una costanza del ritmo di mutazione nel tempo, si calcolò (per varie proteine) il tempo medio richiesto per una singola modificazione, e si riuscirono così a calcolare, su base molecolare, i tempi di divergenza, cioè le epoche in cui due specie in esame avevano cominciato a registrare nelle loro molecole modifiche indipendenti, avevano cominciato a differenziarsi biochimicamente. (8)
Una delle più sconcertanti risultanze della comparazione molecolare fu la incredibile vicinanza tra l’uomo e gli scimmioni africani. Tradotta in milioni di anni, secondo i principi del cosiddetto "orologio molecolare", la divergenza tra uomini e scimpanzé risultò di 1,3 milioni di anni, (9) una data che fu poi corretta a 4-5 milioni di anni. Si trattava, comunque, d’un epoca inferiore alle più antiche documentazioni fossili relative ai primi ominidi (5-6 milioni di anni) in contraddizione con l’idea che gli ominidi derivassero dagli scimmioni.
Un’analisi più sottile delle modificazioni molecolari successive alla divergenza tra uomini e scimmioni rivelò un’altra situazione inattesa. Le modifiche erano state molto più numerose sulla linea scimmiesca che sulla linea umana. Ciò corrispondeva alla constatazione che l’ascendente comune tra uomo e scimmioni aveva una struttura molecolare molto vicina a quella dell’uomo moderno.
Sia anatomicamente che molecolarmente l’uomo risultava il Peter Pan tra i Primati, cioè la specie che non si trasformava nel tempo, il bambino che non voleva crescere. (10)
I citologi, cioè gli studiosi dei cromosomi, comparando le mappe cromosomiche di uomo, scimpanzé e gorilla raggiunsero, indipendentemente, la stessa conclusione. L’ascendente comune di uomini e scimmioni aveva cromosomi virtualmente uguali a quelli dell’uomo moderno. Anche i citologi raggiunsero la conclusione che uomini e scimmie erano derivati da un proto-uomo, il che significava, in parole semplici, che la figura umana aveva preceduto quella scimmiesca. (11)
I dati molecolari e citologici hanno sostanziato dunque quello che i dati anatomici e paleontologici avevano indicato. La grande antichità dell’uomo, il carattere primario della nostra specie rispetto al carattere secondario e derivato degli scimmioni africani.
Pan e Satana.
La caduta dell’umano nell’animalesco è un avvenimento di così grande drammaticità che ci dobbiamo attendere di trovarne una traccia nelle categorie del nostro spirito, una menzione nelle nostre mitologie. Un esame della mitologia greca e della storia sacra cristiana ci confronta subito con la narrazione della caduta in varie versioni, di cui mi limiterò a citare le due più importanti, che rappresentano due momenti cruciali nella religione olimpica e nelle religioni monoteistiche derivate dall’ebraismo.
Un mito narra dell’unione del Dio Hermes, l’angelo dei greci, con una ninfa figlia di Driope. Dall’unione nasce un bambino-animale, un essere mezzo uomo e mezzo capro, che il padre porterà in Olimpo, dove sarà assunto alla divinità col nome di Pan. (12) Pan è il dio dei boschi e delle balze montane, inseguitore di ninfe, suonatore di flauto, custode del riposo meridiano, generatore della follia, dell’incubo, del panico. Questo dio-satiro assunse un ruolo centrale nell’Olimpo ellenico, e rappresenta il lato oscuro, selvaggio, passionale dell’uomo, una condizione estrema del dionisismo, all’opposto della distaccata purezza di Apollo. Nella storia sacra cristiana incontriamo una figura iconograficamente identica al Pan greco: Satana, il diavolo.
Questo satiro, che nella nostra religione non ha nessuna delle qualità gioiose e divine di Pan, è pura malvagità, è la raffigurazione del male assoluto. Anch’esso ha origine da una figura umana, da un a arcangelo arrogante che è punito da Dio e precipitato nel basso e nell’animalesco con tutta la sua razza. Nei bestiari proto-cristiani l’animalesco non è rappresentato dal capro, ma dalla scimmia, e precisamente dalla scimmia umanoide, priva della coda. Scrive il Physiologus (II-IV sec.) "…la scimmia è un immagine del demonio: essa ha infatti un principio, ma non una fine, cioè una coda, così come il demonio in principio era uno degli arcangeli, ma la sua fine non si è trovata". (13)
I primi bestiari cristiani sono probabilmente di origine africana (egiziana) e si deve pensare che portino testimonianza di una tradizione primordiale, nella quale la scimmia derivata dall’umano appare come un simbolo fondamentale della storia sacra. L’origine dell’uomo dalla scimmia asserita da Darwin, oltre a contraddire una serie di prove naturalistiche, ribalta il fondamento della nostra sacralità, ponendo il male, sotto forma di scimmia, all’origine, e il bene come emancipazione dalla creazione primigenia. L’uomo razionale si salva da un cattivo demiurgo creatore.
Nella nostra tradizione, al contrario, è l’uomo che introduce il male nel creato, e la sua redenzione, ad opera del Dio fatto uomo, rappresenta un ritorno alla purezza originaria.
ALCUNI COMMENTI ALL’ORIGINE DEGLI SCIMMIONI DALL’UOMO
Anche se scimmia e uomo hanno comune radice…questa è però…non la forma scimmiesca ma quella umana. L’espressione volgare, se si devono usare queste formule, dovrebbe suonare così: "la scimmia deriva dall’uomo"…Max Westenöfer (1926) Heidelberg 1948
Gli ominidi non discendono dalle scimmie antropoidi, piuttosto gli scimmioni possono essere derivati dagli Ominidi… Bjorn Kurtén, Einaudi 1972
Il venerabile antenato aveva si un cervello piccolo e una faccia grande, ma camminava in posizione eretta e le sue membra avevano le proporzioni a noi note nell’uomo. André Leroi-Gourhan (1964) Einaudi 1977
Quale fanciullo di primati viventi è più simile, nella forma, agli stadi giovanili dei nostri antenati? La risposta deve essere: la nostra stessa forma infantile Stephen Jay Gould, Cambridge Mass. 1977
Noi pensiamo che la derivazione degli Ominidi dal ceppo comune a tutti i Primati ha più probabilità di essere vera della filiazione dalla linea scimmiesca. Pierre-P. Grassé, Adelphi 1979
Che tra i discendenti più elevati e lontani da un presunto modello umano originario possa trovarsi anche una scimmia antropomorfa è idea che non può sorprendere chi come me aderisce alle vedute di un’antropologia tradizionale Emilio Servadio "Il Tempo" 1983
Sarei fiero di essere un antenato dello scimmione che a differenza di certi esseri umani è nobile e dignitoso.
Alberto Bevilacqua "Il Tempo" 1983
E’ giusto e logico che da un essere perfetto come l’uomo…possa scaturire uno scimpanzé…Non mi disturba affatto essere l’antenato di uno scimpanzé, mi disturberebbe invece esserne un discendente.
Pietro Chiara "Il Tempo " 1983
Altri specialisti…si son detti: se a detta della paleontologia gli ominidi risalgono a ben cinque milioni di anni, allora per spiegare la nostra stretta parentela con lo scimpanzé o rivediamo la classificazione dei fossili smembrando la famiglia degli Ominidi, o facciamo derivare lo scimpanzé (per il quale mancano fossili) da questa famiglia…Io preferisco la buona biologia che offre poche certezze e tanti dubbi
Pietro Omodeo "L’Espresso" 1983
Potremmo anche formulare la nostra ipotesi dicendo che le scimmie derivano dall’uomo…
J. Gribbin, J. Charfas, Mondadori 1984
L’assenza di fossili di gorilla e scimpanzé conferma la probabilità di una loro derivazione molto recente in seno alla linea Ominide (bipede). Francesco Fedele, Le Scienze, Quaderni 1984
Le prove cariologiche indicano che tra gli scimmioni africani viventi e gli uomini il miglior modello cromosomico per la condizione protoominide è Homo Sapiens R. Stanyon, B. Chiarelli, K. Gottlieb, W. H. Patton, 1985
NOTE.
(1) E. Samek Ludovici, La gnosi e la genesi delle forme, rivista di biologia 74 (1-2) pp. 55-86, Perugia 1981
(2) J. R. Durant, Il mito dell’evoluzione umana, Rivista di Biologia, 74 (1-2-) pp. 125-151, Perugia 1981
(3) G. Sermonti La luna nel bosco: saggio sull’origine della scimmia, Rusconi, Milano 1985
(4) R. Holloway, I cervelli degli ominidi fossili in Gli antenati dell’uomo, Le Scienze, quaderno 17 ottobre 1984
(5) M Westenhöfer, Die Grundlagen meiner Theorie von Eigenweg der Menschen, Carl Winter, Heidelberg 1948
(6) E. Genet-Varcin, Problèmes de Philogénie chez les hominidés d’un point de vue morphologique , Ann. Paleont. Vértébrés, 61 (") pp. 211-233, 1975
(7) S. J Gould, Questa idea della vita, Editori Riuniti pp. 48-554, Roma 1984.
(8) R. E. Dickerson, Struttura e funzione di un ‘antica proteina, Le Scienze, 47, Luglio 1972
(9) M. Goodman, in "Progr. Biophys. Molec. Biol", 38, pp. 105-164, 1981
(10) A. R. Templeton Phylogenetic inference from restriction endonuclease cleavage site maps… in Evolution 37, pp. 221-244, 1983
(11) J. J. Junis, O. Prakash, The origin of man: a chromosomal pictorial legacy, Science, 215, pp. 1525-30, 1982
(12) K. Kereny, Dei ed Eroi della Grecia, vol.1 pp. 162-164, Garzanti, Milano 1976
(13) Il Fisiologo, trad. it, Adelphi, Milano 1975
CASO O FINALISMO NELL’EVOLUZIONE DEI VIVENTI?
L’indagine paleontologica sull’evoluzione dei viventi rileva che a un certo punto dell’evoluzione del pianeta Terra è comparsa la vita, dapprima in forme estremamente semplici ed elementari, e poi, a intervalli di milioni di anni, a mano a mano, in forme sempre più varie, strutturate e complesse. Recentemente (in senso geologico), è apparso l’uomo, l’essere pensante, cosciente di sé e del mondo, capace di progettare il futuro, dotato di un linguaggio simbolico, di autocoscienza e di libertà, e quindi capace di fare la storia: ciò di cui nessun altro essere è capace. Come e quando questa evoluzione sia avvenuta, secondo quali modalità e quali forme, secondo quali meccanismi e quali circostanze favorevoli o sfavorevoli, spetta alla scienza — in particolare alla paleontologia e alla biologia — dirlo, formulando ipotesi che, sottoposte a continue revisioni e miglioramenti, diano ragione del fenomeno evolutivo dei viventi, che è immensamente vario e complesso. Di ciò abbiamo parlato precedentemente(1).
Ma il «fatto» evolutivo dei viventi non pone soltanto difficili problemi alla scienza; pone interrogativi ugualmente difficili alla filosofia, in quanto riflessione sulla natura della realtà, oggetto di indagine non soltanto da parte della scienza, sulle cause che l’hanno prodotta, sui fini che persegue; più profondamente, sul suo senso. In particolare per quanto riguarda l’evoluzione dei viventi, la riflessione filosofica si chiede come tale evoluzione sia stata possibile. Infatti, nel processo evolutivo dei viventi si ha il passaggio dalla non-vita alla vita; dal vivente unicellulare al vivente pluricellulare; da questo a esseri viventi sempre più complessi e diversificati, fino a giungere all’uomo. In concreto, il processo evolutivo dei viventi comporta il passaggio «dal meno al più», una «salita» dal meno complesso al più complesso, dal più probabile al più improbabile, dal non cosciente al cosciente: l’uomo. Come spiegare razionalmente questo passaggio dal «meno al più», questa «salita» che, attraverso numerosi passaggi sempre più imprevedibili, ha condotto all’«emergere» dell’uomo?
Infatti, quello che è avvenuto non è soltanto il fatto che si siano prodotte condizioni fisiche, chimiche e termiche in cui la vita era possibile, ma che i singoli elementi che compongono l’essere vivente più semplice si siano organizzati in modo da formare prima le molecole, poi le macromolecole, poi la sintesi delle proteine, passando da strutture più elementari a strutture più complesse. In altre parole, non si tratta di dire come questi fatti siano avvenuti, ma come è stato possibile che siano avvenuti: non è il come del passaggio dal non vivente al vivente e dal vivente meno complesso al vivente più complesso che fa problema, perché il progresso scientifico si spera che riesca a scoprirne i meccanismi e quindi a spiegarlo; ma è il fatto del passaggio dal non vivente al vivente; dal vivente meno complesso al vivente più complesso che richiede una giustificazione.
Il motivo è semplice: perché potesse sorgere la vita è stata necessaria una serie di strutture organizzate in forme sempre più complesse e in maniera vitale e funzionale. Quale causa o quali cause hanno prodotto queste strutture viventi, che dai microrganismi sono passate a costruire organismi di estrema complessità? Le risposte a queste domande — sotto il profilo filosofico, cioè razionale, e dunque comune a tutti gli uomini — possono essere soltanto due: o la materia non vivente si è organizzata da se stessa con una causa estrinseca in materia vivente o l’organizzazione della materia non vivente in materia vivente ha avuto una causa intrinseca alla materia stessa o ad essa estrinseca.
«Caso» o capacità «intrinseca» della materia?
L’organizzazione «da se stessa» della materia non vivente in materia vivente è potuta avvenire «per caso» oppure per una capacità «intrinseca» alla materia non vivente?
Che la vita sia sorta «per caso» sulla Terra è oggi affermato da molti uomini di scienza, in particolare biologi, come J. Monod, autore del volume Il caso e la necessità(2). Ma in realtà è razionalmente impossibile spiegare con il caso il fatto che molti atomi si siano associati per formare gli aminoacidi; che questi si siano uniti insieme per formare le molecole di proteine, concatenandosi l’uno all’altro non a caso, ma secondo un ordine strettamente definito; che tali molecole si siano aggregate per formare macromolecole. Infatti le probabilità che tali combinazioni possano avvenire per caso sono talmente piccole, sotto l’aspetto matematico, e quindi scientifico, da potersi considerare inesistenti.
In realtà, quando il numero degli elementi che devono riunirsi secondo un dato ordine è molto elevato, le probabilità che si verifichino determinate combinazioni sono praticamente nulle. È stato calcolato che una signora che volesse assegnare un posto in una tavola di dieci coperti a dieci invitati avrebbe, per farlo, 3.628.800 modi diversi; nel caso che gli invitati fossero 20, i modi di collocarli sarebbero più di due miliardi di miliardi.
Ora una molecola di albumina contiene decine di migliaia di milioni di atomi, raggruppati secondo un certo ordine, in una struttura dissimmetrica. Se a formarla fosse stato il caso, le probabilità della sua formazione sarebbero matematicamente nulle, perché le possibilità che gli atomi si raggruppassero in maniera diversa sarebbero un numero inimmaginabile. Perciò il «caso» non può giustificare neppure la formazione di «una» molecola; tanto meno può giustificare la comparsa di miliardi di miliardi di strutture macromolecolari e di organismi pluricellulari in tempi estremamente brevi e, soprattutto, sempre più accelerati.
Ma, anche ammettendo che «per caso» si sia formata una struttura vivente, bisogna spiegare come sia potuto avvenire che, sempre «per caso», siano comparsi miliardi di miliardi di altre strutture viventi, perché quello che è riuscito una volta «per caso» non si può ripetere un numero incalcolabile di volte. Questo è talmente evidente che lo stesso J. Monod — il quale afferma che la vita è comparsa per caso sulla terra «una sola volta» — per spiegare come poi sia comparsa infinite volte secondo leggi precise deve ricorrere alla «necessità», per cui ciò che è avvenuto «per caso» una sola volta deve avvenire necessariamente («per necessità») infinite volte. E perché? Per quale misterioso motivo il «casuale» diviene «necessario», il «caso», che per sua natura è capriccioso, si converte in «necessità» ferrea e assoluta?
Altri uomini di scienza pensano che il passaggio dalla materia non vivente alla vita in forme sempre più complesse (dai microrganismi mono-e-pluricellulari all’uomo) sia avvenuto per la «capacità intrinseca» della materia di «auto-organizzarsi» in maniera «creativa», in modo da produrre il «nuovo» e il «più», passando dalla non-vita alla vita, dalle forme di vita più semplici a quelle sempre più complesse, fino a giungere alla vita intelligente, all’uomo. Si tratta — essi dicono — di una capacità propria della materia di auto-organizzarsi in forme di vita sempre più perfette. Si tratta cioè di una «legge naturale», presente nella materia, che la organizza in modo che dalla materia non vivente sorga la vita: legge «necessaria», che agisce cioè in modo necessario, cosicché dal non vivente debba necessariamente aver origine il vivente. L’esistenza di questa legge naturale intrinseca alla materia dispensa dal far ricorso al caso, che in verità non spiega nulla, ma è soltanto indice della nostra ignoranza. Non quindi il caso, ma la capacità auto-organizzativa della materia spiega il passaggio «dal meno al più», dalla non-vita alla vita, dalla vita unicellulare all’uomo.
Ma che cos’è questa capacità auto-organizzatrice della materia, la quale fa sì che dal «meno» — la materia non vivente — possa sorgere il «più»: la vita e il pensiero? In realtà, la materia non ha la vita né il pensiero. Come può allora divenire vivente e pensante?
Come spiegare il passaggio dal «meno» al «più»?
Evidentemente, questo passaggio dalla non-vita alla vita e dalla vita non-pensante al pensiero non può avvenire se non ad opera di un essere dotato di vita e di pensiero, che dia alla materia la capacità di auto-organizzarsi in modo che, quando ci siano le condizioni perché la vita possa sorgere e svilupparsi, questa sorga e si sviluppi, e, quando ci siano le condizioni perché il pensiero possa sorgere e svilupparsi, questo sorga e si sviluppi. Da ciò bisogna concludere che l’auto-organizzazione della materia non vivente e non pensante in modo tale che da essa possano venire la vita e il pensiero è opera di un essere vivente e pensante.
Soltanto infatti la presenza attiva di tale essere può spiegare perché dal «meno» possa venire il «più»; perché si verifichi non quello che è più probabile, ma quello che è più improbabile, qual è la vita; perché dal caos possa nascere l’ordine e dalla molteplicità caotica degli elementi materiali possa venire il vivente, cioè un essere in cui gli elementi materiali formano una struttura complessa, coordinata e coerente. Una struttura, quindi, estremamente complessa, ma ordinata in tale maniera che il vivente sia capace di conservarsi, di integrare nella sua struttura nuovi elementi e di eliminarne alcuni che possiede, perché nocivi; sia capace di crescere, di svilupparsi, di riparare le ferite, di riprodursi, dando vita a un organismo che ha la sua stessa struttura, di adattarsi ai mutamenti dell’ambiente; vivente insomma organizzato in modo tale che tutto tenda alla sua conservazione e alla sua riproduzione, e in cui ogni elemento sia coordinato con gli altri in modo tale che ne risulti il benessere di tutto l’organismo.
Qui si pone la domanda: qual è la natura di questo essere dotato di vita e di pensiero che dà alla materia non-vivente e non-pensante la capacità di auto-organizzarsi in modo che possano sorgere e svilupparsi la vita e il pensiero? Si tratta di una forza immanente alla materia e identificantesi con essa oppure di un essere che agisce sulla materia, ma la trascende assolutamente?
L’immanenza nel mondo materiale di una Forza organizzatrice era ammessa nell’antichità da Eraclito, da Anassagora e dagli Stoici, i quali parlavano di un Pensiero seminale (Logos spermatikos), di un’Energia attualizzante (Entelecheia), intesa come principio energetico che informa la materia, la plasma: quindi, come una Forza divina che penetra materialmente il mondo, e perciò è insita in esso sotto forma di Spirito (Pneuma), di Fuoco artefice, infiammato e pensante(3).
Questa idea fu ripresa nel Rinascimento col tema dell’Anima mundi da Marsilio Ficino(4), da Agrippa di Nettesheim, da Paracelso e da Giordano Bruno(5). In tempi più recenti, K. Marx vide nella natura materiale l’Essere primo che non dipende da nessun altro (Selbständing) perché esiste da se stessa ed è capace di «auto-generazione» (Selbsterzeugung). Nel 1982 E. Jantsch parlava di «auto-organizzazione dell’Universo» (Die Selbstorganisation des Universums), in forza della quale dal Big Bang si sarebbe giunti allo spirito umano.
Ma affermare che alla materia non vivente e non pensante sia immanente una forza organizzatrice vivente e pensante equivale ad affermare che la materia non vivente e non pensante sia vivente e pensante: ciò è assurdo e contraddittorio, salvo che non si faccia della materia un essere divino, vedendo in essa un’«emanazione» del Divino secondo la concezione neoplatonica, o un «modo» di essere di Dio, secondo la concezione spinoziana. Spinoza infatti identifica Dio e la Natura (Deus sive Natura), la Natura naturans (Dio) e la Natura naturata (il mondo). Ma in ogni concezione panteistica il mondo perde la sua consistenza e si riduce a esistere soltanto apparentemente oppure è il mondo a essere divinizzato e quindi ad essere Dio, ad assorbire Dio. In conclusione, la forza che spinge la materia ad auto-organizzarsi per passare dal «meno» al «più», cioè alla vita e al pensiero non può essere intrinseca alla materia stessa, ma dev’essere estrinseca ad essa.
C’è un finalismo nel processo evolutivo?
Ma c’è di più. Il processo evolutivo del vivente che dagli organismi monocellulari conduce all’uomo si svolge non in maniera caotica e disordinata ma secondo un «ordine» e, dunque, secondo un «disegno», un «fine» da raggiungere. Infatti nell’essere vivente — dal più semplice al più complesso — ogni elemento è coordinato con gli altri e concorre al risultato finale che è la sua vita, il suo benessere, lo sviluppo del suo organismo. Ma questo risultato finale è un fine perseguito e voluto oppure è avvenuto senza che sia stato perseguito? Questo problema oggi è molto discusso.
Sono infatti oggi molti coloro che negano ogni finalismo nel processo evolutivo, affermando che il finalismo è una illusione, come dimostra il fatto che il processo evolutivo ha comportato anomalie, disastri, errori, prodigalità inutili, forme innumerevoli di crudeltà, meccanismi che hanno condotto alla distruzione di molte forme di vita. Per spiegare gli innegabili successi del processo evolutivo, che ha condotto all’apparizione di un numero incalcolabile di specie, sempre più strutturate e complesse fino a giungere all’uomo, essi fanno appello alle felici combinazioni di elementi disparati avvenute per caso. Così J. Monod scrive che «il puro caso, il solo caso è alla radice del prodigioso («prodigioso» si badi) edificio dell’evoluzione: questa nozione centrale della biologia moderna è la sola concepibile, come unica compatibile con i fatti dell’osservazione e dell’esperienza»(6).
In realtà, c’è nel processo evolutivo un evidente finalismo, come appare dal fatto che la natura, soprattutto quella vivente, mediante meccanismi estremamente complessi — e tali che l’uomo, usando tutta la sua intelligenza e gli strumenti più perfezionati, è riuscito a imitare soltanto lontanamente — riesca a perseguire fini che sono in molti casi irraggiungibili dall’uomo, tanto grande è la loro perfezione. Infatti la finalità che, sia pure attraverso insuccessi ed errori, la natura vivente persegue è il benessere del vivente. Ora la natura raggiunge questa finalità mediante il concorso armonico e convergente di moltissimi elementi, assai disparati. Basti pensare alla formazione di una cellula, che è l’elemento-base della vita, nella quale intervengono numerosi elementi (proteine, grassi, zuccheri, sali, acqua) che si «sintetizzano», dando luogo a una struttura estremamente complessa, capace di conservarsi, di moltiplicarsi, di riprodursi e di ripararsi.
Ma soprattutto negli animali superiori e nell’uomo appare in maniera più mirabile la convergenza di innumerevoli elementi per la costruzione di un singolo organo e la convergenza di innumerevoli organi, già in sé estremamente complessi, per permettere la vita e il benessere degli esseri umani. A questo proposito, il corpo umano rappresenta la struttura più perfetta e più perfettamente organizzata che esista nell’universo: si pensi ai numerosi problemi statici e dinamici risolti dal meccanismo articolato dello scheletro, alla perfezione della mano, della gamba e del piede; si pensi alle funzioni della respirazione, della nutrizione, della digestione, della circolazione sanguigna, della canalizzazione linfatica, dell’eliminazione delle scorie: funzioni che devono procedere tutte insieme in maniera coordinata; si pensi al lavoro continuo e imponente che compiono il cuore, i reni, il fegato, il pancreas; si pensi infine alle strutture estremamente complesse dell’occhio, dell’orecchio, del cervello, che è certamente uno degli organi più complessi e più perfetti dell’universo.
Com’è possibile che queste strutture, le quali per esistere e funzionare hanno bisogno della convergenza di numerosi elementi, che devono agire in maniera coordinata e simultanea, possano essere opera di una felice coincidenza avvenuta per caso e mantenutasi necessariamente e non siano invece opera di una intelligenza ordinatrice che compie un «disegno»? Dove infatti c’è convergenza ordinata di elementi diversi per ottenere un unico scopo, lì c’è finalità e dunque intelligenza ordinatrice. Tanto più che il fine che si tende a raggiungere può essere non conosciuto: così gli animali compiono istintivamente e senza saperlo atti estremamente complessi in vista di fatti che dovranno accadere, necessari per la loro conservazione, ma che essi non conoscono. Così, ad esempio, gli uccelli costruiscono nidi assai complicati, perché i fili d’erba sono sempre più sottili e morbidi quanto più ci si avvicina al centro del nido, dove saranno deposte le uova da covare e dove dovranno vivere al caldo gli uccellini appena usciti dalle uova.
Ma qui si ripropone il problema della natura dell’intelligenza ordinatrice, cui si è già accennato: è una «legge naturale» immanente alla materia, per cui questa ha prodotto necessariamente il processo evolutivo, come ritengono gli scienziati e i filosofi che si ispirano al monismo materialista (per cui tutto è materia e prodotto dalla materia, anche il pensiero), oppure l’intelligenza ordinatrice è estrinseca alla materia e la ordina in maniera tale che possa raggiungere fini che per se stessa è incapace di raggiungere? Un’intelligenza, quindi, che trascende la natura materiale, da una parte, e, dall’altra, le dia la capacità, che essa non ha per sua natura, di passare dal «meno» al «più», dal non vivente al vivente, dal vivente al pensante.
Qual è la natura dell’intelligenza ordinatrice?
In realtà l’innegabile finalismo esistente nella natura, che si manifesta in maniera mirabile nel processo evolutivo dei viventi, si può spiegare soltanto ammettendo l’esistenza di un’Intelligenza trascendente il mondo materiale, ordinatrice e creatrice di esso.
Infatti il finalismo comporta l’esistenza di un’intelligenza. Tendere a un fine significa anzitutto conoscere il fine a cui si tende, ma che ancora non c’è: significa cioè, da una parte, anticipare il fine e, dall’altra, predisporre i mezzi al fine che si vuole raggiungere. Ora soltanto un essere intelligente può prevedere il fine, cioè una realtà che non c’è e che esiste soltanto nella mente, e può predisporre i mezzi al fine. Questo perché soltanto l’intelligenza può conoscere il fine in quanto fine, cioè la «ragione del fine», ciò per cui il fine è «fine». L’animale non intelligente conosce ciò che per esso è «fine» (il gatto sa che deve acchiappare il topo), ma non conosce «il fine in quanto fine», cioè non conosce che la cosa che per esso è fine sia tale e quindi non percepisce il rapporto dei mezzi al fine (il gatto corre per acchiappare il topo avvertendo per natura che deve correre più velocemente del topo se lo vuole raggiungere).
Conoscere il fine in quanto fine (la «ragione del fine») e predisporre i mezzi al fine per il fatto di vedere il rapporto tra mezzi e fine sono atti che soltanto l’essere intelligente può compiere, perché solamente l’intelligenza è capace di penetrare la «ragione dell’essere» delle cose. Quindi la tendenza al fine può essere soltanto opera dell’intelligenza: perciò dove c’è finalismo c’è intelligenza ordinatrice, che predispone i mezzi al fine. Se quindi nel processo evolutivo dei viventi c’è finalismo, questo non può che essere opera dell’intelligenza. Ma gli esseri viventi, a eccezione dell’uomo, non sono intelligenti. Quindi il finalismo che si rileva nel processo evolutivo dei viventi non umani, e dunque non intelligenti, ha la sua causa in un’Intelligenza che è al di fuori del processo evolutivo o, meglio, lo trascende. Si compie, quindi, nell’evoluzione dei viventi un «disegno intelligente», opera cioè di un’intelligenza.
Qual è la natura di questa intelligenza ordinatrice del processo evolutivo dei viventi e ad esso trascendente? La risposta a questa domanda, posta dall’intelligenza umana, è data dalla teologia cristiana. Infatti l’uomo non è in grado di dare una risposta piena, perché, pur affermando l’esistenza di un’intelligenza ordinatrice, non è in grado di penetrare nel «mistero» del suo essere. Così, l’evoluzione dei viventi interpella la fede e la teologia, come vedremo prossimamente.
Tuttavia, restando sul piano della ragione umana e osservando l’universo come lo mostrano l’esperienza umana e la ricerca scientifica, dobbiamo dire che l’intelligenza ordinatrice è «una» e «sapientissima». «Una», perché tutti gli esseri, viventi e non viventi, sono ordinati gli uni agli altri, in modo da formare una moltitudine, immensamente varia, ma anche «ordinata», un tutto unico e armonico. «Sapientissima», perché l’universo, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, è ordinato con infinita sapienza: se, infatti, la sapienza consiste nel predisporre i mezzi al fine da conseguire, essa è tanto più perfetta quanto più grande e più complesso è il numero dei mezzi da preordinare, e più perfetto e più costante l’ordine che si raggiunge. Ora, quando si riflette sull’illimitata varietà e complessità degli esseri che costituiscono l’universo e sull’armonia che risulta dal loro intreccio; quando, ad esempio, si pensa all’estrema varietà e complessità degli elementi che intervengono nella formazione del cervello umano e che devono essere coordinati perché esso funzioni, non si può non affermare che l’universo, nel suo insieme e in ogni singolo elemento, sia ordinato con infinita sapienza.
Questa Intelligenza ordinatrice, «una» e «sapientissima», che trascende l’universo, perché lo crea dandogli l’essere, è Dio. «Chi» Egli sia, «come» Egli agisca, noi con la sola ragione non lo sappiamo né possiamo saperlo. Dio, infatti, è per l’uomo il Mistero ineffabile. Considerando però l’universo, nel suo essere e nella sua evoluzione, possiamo affermare che Egli esiste e che è infinitamente sapiente e buono.
1 Cfr G. DE ROSA, «L’evoluzione dei viventi. Il fatto e i meccanismi», in Civ. Catt. 2006 III 232-241.
2 Cfr J. MONOD, Il caso e la necessità, Milano, Mondadori, 19713. Si noti che questa opera è di natura «filosofica», come indica il sottotitolo: Saggio sulla filosofia naturale della biologia moderna, e ha come progetto lo «spingere al limite le conclusioni autorizzate dalle scienze allo scopo di rivelarne il pieno significato». In realtà, J. Monod passa dalla «storia naturale», che è il campo proprio della scienza, alla «filosofia naturale», che fa parte della riflessione propriamente filosofica. Si noti anche che oggi molti uomini di scienza passano — quasi spontaneamente — dal campo scientifico a quello filosofico.
Così R. DAWKINS, L’orologiaio cieco, Milano, Rizzoli, 1988, si professa ateo e giustifica il suo ateismo col fatto che per rendere conto dell’evoluzione intesa come il passaggio della non-vita alla vita, dalle forme di vita semplici alle forme di vita sempre più complesse fino a giungere all’uomo, non è necessario ricorrere a un agente estraneo, come potrebbero essere un Creatore, ma basta la selezione cumulativa, che, attraverso passaggi lenti e graduali, conduca le specie a modificarsi in tale maniera da dare origine a specie totalmente diverse. Così in virtù della «selezione cumulativa», ad esempio, si è avuto il passaggio dai rettili agli uccelli. «La teoria dell’evoluzione per selezione naturale cumulativa — egli scrive — è l’unica teoria a noi nota che sia capace in linea di principio di spiegare l’esistenza della complessità organizzata. Quand’anche le prove empiriche non la favorissero, essa sarebbe ancora la teoria migliore disponibile. In realtà, però le prove empiriche la favoriscono» (p. 459). Resta la domanda: chi o che cosa muove la selezione cumulativa ad agire? In virtù di chi o di che cosa essa agisce? E, se agisce necessariamente, come si spiega la «necessità» del suo agire?
3 G. STOBEO, Eklogaí (Eclogae physicae et ethicae), I, 56.
4 Anima mundi «Dum implet corpora, intrinsecus illa movens, illa vivificat [...]. Est copula mundi» (Theologia platonica de immortalitate animorum, Parisiis, 1559).
5 Per Giordano Bruno, l’universo è una realtà viva in tutte le sue parti («la vita penetra tutto» [De la causa, Opere italiane, II, 541]) e la materia vivente è il sostrato dell’Anima mundi, la quale guida l’uomo e tutti gli altri esseri. In realtà, per Giordano Bruno l’unica realtà sostanziale dell’universo è la Natura, costituita dall’Anima mundi e dalla materia che le fa da sostrato.
6 J. MONOD, Le hasard et la nécessité, Paris, Seuil, 1970, 127. Osserva J. L. Ruiz de la Peña: «Sembra che lo sfondo del pathos antiteleologico di Monod e dei suoi fautori nasconda non tanto una convinzione scientifica, quanto un’opzione teologica (o, più precisamente, antiteologica). In effetti alla retroguardia della dialettica caso-finalità si aggrappa il duplice problema dell’origine della vita e dell’origine dell’uomo. Bisogna vedere una relazione tra i due eventi? In questo caso sarebbe assai difficile sottrarsi all’ipotesi di un Piano Supremo, di un Artefice o di una Intelligenza preveggente e omnicomprensiva. Vale a dire: al di sotto della simpatia antifinalista soggiace l’orrore del teismo; parlare di finalità, disegno o teleologia significa indurre tacitamente l’idea di un logos originario e originante» (La Teologia della creazione, Roma, Borla, 1988, 234).
«L’orrore del teismo»! In realtà, pur di non ammettere l’esistenza di un’Intelligenza ordinatrice del processo evolutivo, finalizzato all’apparizione dell’uomo, si ricorre al «caso» come legge evolutiva. Ora, questa è insufficiente a spiegare, ad esempio, il sorgere della vita. Il calcolo matematico dell’indice di probabilità che la vita, qualora fosse dovuta al puro caso, è stato compiuto da Hoyle con impegno ed efficacia: «La probabilità che si produca casualmente una sola delle 200.000 proteine che si danno appuntamento nel corpo umano è uguale a quella che una persona umana ha di risolvere alla cieca il cubo di Rubik: pensare che l’edificio della vita si sia innalzato a caso è tanto irrazionale quanto sperare che un tifone ricomponga correttamente un Boeing smontato e ridotto in rottami» (F. HOYLE, El universo inteligente, Barcelona, Grijalbo, 1984, 11-18). Il «cubo di Rubik» è un gioco formato da 27 cubetti di plastica di sei colori diversi, inventato nel 1974 dall’ungherese Emö Rubik. Offre 43 miliardi di miliardi di combinazioni possibili.© La Civiltà Cattolica 2006 III 483-492 quaderno 3750